di Marco Tarozzi
Questa
è la storia di un genio. Nato esattamente cent’anni fa, ma in incredibile
anticipo sui tempi. Di uno studioso borderline,
fuori dagli schemi, capace di guizzi inarrivabili e di dolorose solitudini. Di
un visionario guidato dalla logica che ebbe chiaro, tra le mani, in mente, il
concetto di computer molto tempo prima che diventasse realtà. Di un uomo
solitario per scelta e alla fine emarginato dalla società, perseguitato dal suo
stesso Paese a cui aveva reso un servizio che gli avrebbe dovuto valere
riconoscenza eterna. Questa è (anche) la storia di un maratoneta. Per passione,
per convinzione. Non un amatore della domenica: un uomo di scienza avvolto da
progetti e impegni ma capace, nel 1947, di correre la sua seconda maratona in
2:46:03 e di coltivare un sogno olimpico, che avrebbe potuto trasformarsi in
realtà se proprio nell’anno dei Giochi di Londra, quelli del ritorno alla
normalità dopo le devastazioni della guerra, non fossero insorti problemi
fisici che deviarono nuovamente la gran parte delle sue forze verso la ricerca
scientifica.
Questa
è la storia di Alan Mathison Turing.
Il padre riconosciuto del computer. Un uomo che ci ha cambiato la vita. Talento
puro, unico. Diverso. Un secolo dopo, è più fresca e viva che mai.
IN ANTICIPO SUI TEMPI
Alan Turing era un matematico. Uno dei più grandi del suo tempo. Ma per qualcuno doveva apparire quasi un visionario, quando nella primavera del 1936 si entusiasmava per quell’idea così rivoluzionaria che avrebbe aperto la strada al mondo moderno e alle sue conquiste cibernetiche: immaginava, Turing, che le macchine potessero pensare.
Lo
scrisse, giovane ricercatore al King’s College di Cambridge dove era diventato fellow, dottorando, appena due anni
prima, in un articolo che scosse la comunità scientifica internazionale. E
inseguì per tutta la sua vita, breve e travagliata, quell’intuizione,
lasciandoci in eredità con gli studi sulla “macchina
di Turing” il moderno concetto di computer, così come lo intendiamo oggi.
Alan
Turing era un uomo schivo, eccentrico. Un genio che stupiva senza volerlo, e
talvolta imbarazzava. Come quando si presentava a lezione in pigiama, e
comunque sempre trasandato e trasognato. O come quando andava a giocare a
tennis coperto soltanto da un impermeabile. Comportamenti che all’inizio
avevano addirittura spiazzato i suoi stessi insegnanti: prima del King’s
College, ai tempi del liceo, quando la pulsione per le materie scientifiche era
tale da fargli quasi dimenticare l’importanza di quelle letterarie, il preside
della scuola in cui si diplomò arrivò a scrivere che era “il tipo di ragazzo condannato a rappresentare un problema in ogni
tipo di scuola e comunità”.
Era
strano, Turing. Non sempre decifrabile. Ma aveva addosso una pulsione per la
libertà che lo portò a diventare un eroe di guerra, seppure dietro le quinte.
Durante il dottorato di ricerca alla prestigiosa università di Princeton,
guadagnato grazie alla sua intuizione, vedeva passare per i corridoi mostri
sacri come Einstein, Von Neumann, Church, Weyl. Ma la maggior parte del tempo
preferiva passarla chiuso nella sua stanza, a perfezionare una nuova e
misteriosa macchinetta che avrebbe contribuito in maniera determinante, di lì a
qualche anno, a cambiare le sorti della guerra e a spazzare via la minaccia del
nazismo. Negli States, Turing sviluppò una passione e un’avversione: la prima
nei confronti dei codici segreti da decrittare, la seconda verso il nazismo,
che con lugimiranza considerava un crimine per l’umanità. Tornato in patria nel
1938, offrì il suo genio alla Government Code and Chiper School che stava
battendosi per evitare al mondo di andare verso la catastrofe. Il problema da
risolvere si chiamava Enigma: all’apparenza un’innocua macchina da scrivere,
nata per scopi tutt’altro che bellici e fatta propria dai servizi segreti
tedeschi perché permetteva alle forze dell’Asse di scambiarsi messaggi cifrati
che nessuno avrebbe potuto comprendere e tradurre. Miliardi e miliardi di
combinazioni: un’impresa impossibile.
Per
tutti, pensavano i tedeschi. Che non conoscevano Alan Turing. Con i suoi
collaboratori, chiuso in una villetta di Bletchey Park, a un’ottantina di
chilometri da Londra, partecipò alla più grande impresa di spionaggio della
storia: costruì prima la “Bomba”, che già nel ’40 leggeva tutto il traffico
segreto della Lutwaffe, poi un enorme colosso elettromeccanico chiamato “Colossus”,
che nel ’43 fece prendere al conflitto mondiale una piega diversa, snidando
soprattutto i “branchi di lupi”, i terribili sottomarini che tenevano sotto
scacco le imbarcazioni alleate. Alla fine della guerra gli fu conferito
l’Ordine dell’Impero Britannico in gran segreto, come segreta era stata la sua
missione. Che Turing fosse stato un eroe la gente l’avrebbe saputo soltanto
trent’anni dopo. E quel suo lavoro decisivo per le sorti del mondo occidentale
non gli rese la vita più facile. Né gliela salvò.
Alan
Turing era omosessuale. In un Paese, l’Inghilterra, che nel dopoguerra faceva
ancora rispettare le stesse leggi che avevano portato in carcere Oscar Wilde.
Lui ci finì dentro per un banale incidente: dopo aver denunciato due ladruncoli
che erano entrati in casa sua, saltò fuori che con uno di loro aveva avuto
rapporti sessuali. Fu imprigionato il 31 marzo 1952 per “atti osceni gravi” e
solo il suo status di insigne scienziato e di eroe di guerra gli evitò il carcere
duro. In cambio, dovette assoggettarsi a un trattamento ormonale che lo avrebbe
reso impotente. Un “bombardamento” che ne minò le capacità fisiche e quelle
mentali, mandandolo in depressione. Stanco, vessato dai pregiudizi e
controllato dai servizi segreti, perché il suo passato al servizio
dell’Inghilterra lo rendeva “scomodo” portatore di verità nascoste, Turing si
isolò e preparò la propria uscita di scena. Teatrale, perché il teatro era
sempre stata, fin dagli anni di studi a Cambridge, una passione. Amava la
storia di Biancaneve, spesso si era fatto sorprendere mentre canticchiava il
motivo della scena in cui la strega convince la principessa a mordere la mela.
E decise di farla finita in quel modo: intingendo una mela nel cianuro e
addentandola. Aveva quarantadue anni da compiere. Aveva fatto fare al mondo un
cambio di marcia.
Anni
dopo, qualcuno ha pensato che il logo scelto da Steve Jobs per la sua azienda
destinata a diventare un’icona della modernità fosse un omaggio silenzioso ad
Alan Turing. Storia o leggenda? Il guru di Apple, a quanto si dice, avvalorò la
seconda ipotesi: “Non è vero, ma Dio,
come vorrei che lo fosse”. A suo modo, comunque un omaggio.
Alan
Turing, infine, è stato un ottimo maratoneta. Per un breve periodo, ma mettendo
nella corsa la stessa dedizione che metteva nelle sue ricerche, nei suoi
progetti, nelle sue intuizioni. E scalando le graduatorie della specialità, in
Inghilterra.
Aveva
iniziato da ragazzo. Gli piaceva lo sport. Canottaggio, ciclismo, soprattutto
corsa. Aveva praticato il running con buoni risultati, a Sherbourne, di solito
quando il maltempo costringeva a cancellare le partite di calcio. Poi aveva
abbandonato durante gli anni universitari a Cambridge, riprendendo con
convinzione dopo la laurea. Uno dei suoi territori d’allenamento abituali era
la strada che portava da Cambridge ad Ely, una cinquantina di chilometri tra
andata e ritorno. Roba da maratoneti, appunto.
Bletchey,
dimora da lui stesso definita “terrificante” e “orrenda”, non doveva essere il
luogo adatto per tenere acceso il fuoco della passione. Ma nell’immediato
dopoguerra Alan approdò al National Phisical Laboratory, dove con i mezzi
messigli a disposizione si dedicò per qualche anno alla costruzione della sua
macchina universale progettando un vero e proprio computer, l’Ace (Automatic
Computer Engine). Ma i tempi di Bletchey Park erano ormai finiti, e Turing
trovò intorno a sé scarso interesse e ancor meno collaborazione.
Fu
in quel tempo, stressato dal lavoro e deluso dall’indifferenza, che riprese a
coltivare la passione per la corsa. E fu in quei luoghi che fu notato dai
futuri compagni del Walton Athletic Club, una società che aveva sede a Walton,
nel Surrey. Un sobborgo a sud-ovest di Londra, non lontano dal luogo di lavoro
dello scienziato.
“Più che vederlo arrivare, lo
sentivamo”, ricordava l’allora segretario della
società, JF Harding. “Faceva un rumore
terribile, una specie di grugnito, quando correva, ma prima ancora che
potessimo rivolgergli la parola ci aveva raggiunto e superato come un
proiettile. Così una sera gli chiedemmo per chi corresse, e quando sapemmo che
non era tesserato lo invitammo ad unirsi a noi. Lo fece e divenne il nostro
miglior runner”.
Il
mensile “Athletic”, poi destinato a diventare “Athletics Weekly”, lo menziona
per la prima volta nell’agosto del 1946, quando vince la gara sociale del
Walton sulle tre miglia. In 15:37:8, tempo niente male per un atleta
trentaquattrenne praticamente debuttante, perché alle prime vere sfide con il
cronometro. A fine ottobre Turing rispunta con un terzo posto, sempre nelle tre
miglia, durante una sfida Walton-Thames Valley-Harriers Woodford Green a
Cranford, a soli sei secondi dal vincitore Alec Olney, di dieci anni più
giovane, destinato a correre i 5000 metri alle Olimpiadi di Londra.
“Non avevamo idea di chi fosse quando
lo invitammo nella società, né di che grande uomo si trattasse. Non lo
realizzammo finché non saltò fuori la faccenda di Enigma. E non sapevamo dove
lavorasse, fino al giorno in cui ci chiese se i ragazzi di Walton avessero
voglia di giocare una partita di calcio con quelli del National Phisical
Laboratory. Era molto amato dai ragazzi, un leader silenzioso perché comunque
non era uno di loro. Ma la volta che affrontammo la nostra prima trasferta a
Nijmgen, in Olanda, e lui era impossibilitato a venire, mi consegnò cinque
sterline, all’epoca una bella somma, dicendomi di comprare ai ragazzi qualcosa
da bere da parte sua”.
Nel
1947 Turing allunga decisamente le distanze. Secondo alle spalle di Peter
Dainty, ufficiale della Raf ed atleta di spessore internazionale prima della
guerra, in una gara di dieci miglia organizzata dal suo club ad aprile; terzo a
maggio in una 20 miglia a Kent, a circa quattro minuti dal vincitore Ron
Marley.
Già
sta progettando, alla sua maniera, da logico matematico, il debutto in
maratona. Che arriva il 12 luglio a Rugby: quarto posto in 3:01:23 nella gara
vinta dal gallese Tommy Richards, futuro argento olimpico un anno dopo, in
2:43:03.
A
fine agosto, a Loughborough, è in prima fila alla partenza della maratona
valida per il titolo nazionale, dove finisce quinto migliorandosi di oltre un
quarto d’ora, con il fantastico tempo di 2:46:03. La vittoria va a Jack Holden degli
Harriers Tipton, anche lui destinato a correre la 42 chilometri olimpica nel
1948.
Per
farla semplice: con un risultato per quei tempi fantastico, Turing è uno dei
nomi che circolano per la squadra di maratona delle Olimpiadi della rinascita.
A fine anno nelle graduatorie AAA compilate da Jack Crump, dirigente della
British Amateur Athletic, il nome di Alan Turing è al nono posto. Fuori di un
soffio dalla lista provvisoria dei “probabili olimpici”.
Ad
aprile dell’anno olimpico, Alan corre la 15 miglia di Wigmore e chiude a nove
minuti dal vincitore. Ma non torna ad affrontare una 42 chilometri, anche per
sopravvenuti problemi fisici, e questo di fatto gli pregiudica una eventuale
chiamata olimpica: nella lista degli “osservati speciali”, nei mesi di vigilia
dell’evento, era finito comunque anche lui. E a Londra il tempo del vincitore,
l’outsider argentino Delfo Cabrera, sarà appena undici minuti inferiore a
quello di Turing. L’idea è che un runner che alla sua seconda maratona corre in
2:46:03 abbia notevoli margini di miglioramento. Nel caso di Turing l’età
poteva essere un handicap, ma la determinazione era enorme: “un giorno gli chiesi perché si allenasse
così duramente”, è sempre il ricordo di Harding, dirigente del Walton
Athletic Club. “Mi rispose: ho un lavoro
stressante, l’unico modo per non pensarci e liberare la mente è lavorare duro
anche in campo”.
DAL SOGNO ALL’INCUBO
Alan
Turing avrebbe continuato a gareggiare fino al 1950. A ritmi meno esasperati,
perché gli infortunii (dovuti anche ad uno stile di corsa parecchio
dispendioso) non lo avrebbero mai più abbandonato del tutto. Chiuse con la
corsa dopo aver dato tutto, trasmettendo nel gesto sportivo le sue
caratteristiche vitali: logica rigorosa, attenzione ai dettagli, capacità di
costruire e portare avanti un progetto vedendone l’approdo, ma anche colpi di
genio improvvisi che spiazzavano interlocutori e, in gara, avversari.
Finita
la parentesi atletica, Alan sprofondò nella vergogna indotta da un’Inghilterra
puritana e pronta a puntare il dito contro il diverso. A questa gogna non si
sottrasse, nonostante non avesse mai ostentato la sua scelta.
“Noi della squadra non sapevamo che
fosse gay. Nessun sentore, lui non lo lasciava trasparire. In spogliatoio
c’erano sempre una trentina di giovani, lui non ne ha mai avvicinato uno, mai
nemmeno invitato uno di noi a bere un drink. L’unica cosa che avrebbe potuto
insospettirci fu un’uscita di gruppo nella quale andammo tutti insieme al
teatro Prince of Wales. Era pieno di ballerine, e tutti i ragazzi avevano lo
sguardo fuori dalle orbite e una certa agitazione addosso. Mi voltai verso Alan
e vidi che stava dormendo…”
Sarebbe
una storia divertente, per colorare un lieto fine. Invece quei tempi
spensierati e felici della corsa erano già un ricordo appena due anni dopo,
quando l’uomo che aveva salvato l’Occidente e aperto la coscienza della gente
lottava contro l’oscurantismo, conosceva la prigione, accettava un trattamento
micidiale che ne avrebbe vinto il carattere forte.
Alan
Turing aveva ancora molto da dare. Negli ultimi tempi aveva allargato la sua
ricerca a studi di neurologia, fisiologia e biologia. Era convinto che entro il
2000 i computer avrebbero potuto replicare completamente il funzionamento del
cervello umano. Aveva un passo mentale che lo faceva vivere in vantaggio sui
tempi. Ma fu punito per quel suo essere diverso, perché la sua nazione
viaggiava, al contrario, molto indietro rispetto ai suoi tempi. Proprio
quest’anno, in occasione del centenario della nascita, il primo ministro
inglese Cameron gli ha rivolto le scuse ufficiali dell’intero Paese. Ma lui non
c’è più da tempo. Per scelta o, come dicono certe teorie del complotto, per
decisione di altri, perché certi segreti dei tempi della guerra avrebbero
potuto accendergli un desiderio di vendetta. Per dirla semplice: qualcuno vede
un omicidio dove è stato registrato un suicidio.
Ma
ormai sono passati troppi anni da quel morso alla mela e da quella fine
tragica. Noi sappiamo solo che in un giorno di giugno del ’54 se ne andò una
delle più grandi menti del Ventesimo secolo. Avrebbe compiuto 42 anni pochi
giorni dopo. Quarantadue. Come i chilometri di una maratona.
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QUEL
TEST CHE ISPIRO’ BLADE RUNNER
Della
grande eredità che Alan Turing ha lasciato all’umanità, esplorando il campo
delle intelligenze artificiali, la più nota è certamente il test che porta il
suo nome. Il “test di Turing” apparve
nel 1950 sulla rivista Mind,
stabilendo un criterio preciso per stabilire se una qualsiasi macchina potesse
essere definita “pensante”. L’idea è semplice e perfetta: tre persone, in tre
diverse stanze; le prime due (A e B) sono un uomo e una donna, la terza (che
chiameremo C) è lì per stabilire, attraverso risposte dattiloscritte, chi delle
altre sia l’uomo e chi la donna. In un secondo esperimento, una delle prime due
persone viene sostituita da una macchina: se le conclusioni di C sono
statisticamente identiche a quelle della situazione precedente, significa che
la macchina può essere considerata “pensante”.
Ad
oggi, nessuna macchina ha superato in maniera esauriente il “test di Turing”,
che nel tempo è stato modificato e aggiornato. Ma l’idea resta piena di
fascino, e c’è chi l’ha usata anche nella finzione cinematografica. Dice niente
l’interrogatorio, fatto di domande apparentemente banali, cui il replicante
Leon Kowalski (impersonato dall’attore Brion Howard James) viene sottoposto da
Rick Deckard (Harrison Ford) che vuole capire se si tratti di un uomo o di un
robot, nel film-culto Blade Runner di Ridley Scott? Non c’è tanto delle idee di
Turing in quella scena?
Runner's World, novembre 2012