Mario Scapini, il grande buio e la rinascita: "Ogni passo avanti mi emoziona"
"Vado in palestra e mi stanco dopo venti minuti. Ma anche questa è una conquista"
di Marco Tarozzi
Hai ventitrè anni e sei nel pieno delle forze. Un talento. Quello
che l’atletica italiana sta aspettando, perché tutti sanno che il futuro è
dalla tua parte. Ci sarebbe da piegarsi sotto la pressione, ma tu no. Sei
forte, sei determinato. Hai deciso i tuoi obiettivi e la strada per arrivarci.
Non conosci ostacoli. E poi questa è la stagione olimpica, quella che sognavi,
e l’hai iniziata nel migliore dei modi. Golden Gala, 31 maggio, 800 metri:
subito il personale e il minimo per gli Europei. Solo l’inizio, pensi con un
sorriso. Solo l’inizio.
Invece la vita è questa: capace di dare e togliere in un attimo.
Senza fermate intermedie. Dalla luce al buio, di colpo. Parte la spedizione
azzurra per gli Europei, ma tu non ci sei. Gli altri si guardano intorno, si
fanno domande. Mario dov’è? A casa. Ha gettato la spugna il giorno prima di
decollare per Helsinki. Quel maledetto mal di schiena. Così forte da non
poterne più. Ma passerà, deve passare. Ci sono le Olimpiadi. Invece no, non
passa. Invece aumenta. E ti senti sempre più debole.
SLIDING
DOORS
Mario
Scapini è
nel salotto di casa, la finestra affaccia sul cortile di un bel palazzo
signorile della Milano che ancora sopravvive ai cambiamenti. Oltre il vetro,
una cartolina d’autunno. Pioggia leggera su sfondo grigio. Si sta bene qui, c’è
un senso di calore e le parole escono senza fatica. Insieme a questa storia non
voluta di caduta e rinascita. E’ strano e quasi terapeutico poter parlare di
questi mesi terribili, ora che sono alle spalle.
Il “muro”, improvviso e inatteso, ha una definizione tecnicamente
fredda: linfoma anaplastico a grandi cellule. La terapia è stata dura: dodici
sedute di chemioterapia. La risposta è stata quella di un ragazzone di poco più
di vent’anni. Ha ripreso quasi tutti i chili che aveva perso, Mario. Va in
palestra, “e l’altro giorno ho fatto il
mio primo giro in bicicletta, un’ora in tutto. Un’emozione”. Piccole,
grandi conquiste. La paura è alle spalle, gliel’hanno detto anche i medici. C’è
da ripensare al futuro, con la stessa grinta ma con molta consapevolezza in
più. Mario racconta, racconta. Di quei dolori, delle cure, di chi gli è stato
accanto, dell’atletica da ritrovare. Sorride, si commuove, si guarda dentro. Si
sente nuovo.
“Questo era
l’anno di Londra. Era il mio pensiero fisso. Fa effetto riflettere sul fatto
che che lo è stato fino a pochi mesi fa, a come una prospettiva possa cambiare
di colpo. La stagione era iniziata nel migliore dei modi, lo stage in Marocco
era filato via liscio e al Golden Gala, primo grande appuntamento di stagione,
ho corso in 1:46:95 gli 800 metri. Record personale e minimo per gli Europei.
Mi sono detto: chissà che non sia l’anno buono. Nelle stagioni precedenti sono
sempre stato frenato da qualche acciacco e ogni volta che ero costretto a
fermarmi l’umore cambiava, vedevo nero. I miei genitori insistevano a dirmi che
dovevo prenderla con più filosofia, ma io non li stavo troppo a sentire. Ora ho
capito che avevano ragione…”
Dopo un debutto così, Mario si era messo in testa di chiudere in
fretta anche la pratica-Olimpiadi. Bisognava sfruttare la condizione.
Guadagnarsi in fretta il pass per Londra, per poi organizzare con tranquillità
le tappe di avvicinamento.
“Passa una
settimana dal Golden Gala e sono al meeting di Trento. La gara di Roma mi ha
caricato, voglio provare subito a correre intorno a 1:45, per non lasciare
dubbi a nessuno. Ma in albergo sento per la prima volta uno strano dolore
all’addome. Temo un’appendicite, mi faccio visitare e la minaccia è
scongiurata. Vado alla gara, ma durante il riscaldamento il dolore si
ripresenta e insieme a Gianni Ghidini, il mio tecnico, decido di non rischiare.
Sette giorni dopo sono in Slovenia, non mi sento bene e corro una gara
dimenticabile. Torno a casa ed esplode il male alla schiena. Sempre più
lancinante. Un giorno prima degli Europei decido di non partire. Sono a pezzi,
fisicamente e moralmente. Mi arrabbio di brutto e penso a tutti i modi
possibili per risolvere il problema. Le Olimpiadi sono ancora una priorità”.
LA GRANDE
PAURA
Fine giugno. Mario si affida a fisioterapisti, chiropratici, ma il
male aumenta. E’ solo a casa, a Milano. Mamma e papà sono al mare con la sorella,
per aiutarla a seguire i nipotini.
“Io faccio
fatica anche a muovermi in casa. Certe sere non vado nemmeno in cucina a
prepararmi da mangiare, spizzico quello che trovo. Mio padre torna a casa, mi
vede e in un attimo decide: ora ti fai visitare, poi ce ne andiamo tutti al
mare e al diavolo le Olimpiadi. La salute è più importante”.
A metà luglio arriva la febbre, il male ormai è insopportabile.
Mario si fa ricoverare. Non mangia, non beve. Non riesce nemmeno a parlare. Al
San Raffaele è un esame dietro l’altro, e in due settimane arriva la diagnosi.
Un frontale con la vita.
“Dire che
per me era un ambiente nuovo è un eufemismo. L’ospedale era un luogo ignoto,
fino all’estate scorsa. Sono stato catapultato in una realtà che non conoscevo.
E non per fare esami di routine, ma in Oncologia d’urgenza. Ho affrontato la
prova: la trafila degli esami si è chiusa con un intervento chirurgico,
diagnostico. Una laparoscopia. Era il 2 agosto. Le Olimpiadi erano iniziate da
meno di una settimana, il giorno dopo sarebbero iniziate le gare d’atletica. E
io dovevo iniziare la chemioterapia”.
Altre priorità, appunto. Il mondo intorno che cambia. Mario esce
dall’ospedale dopo due sedute di chemio, il 20 agosto, e continua la cura da
casa. Un passo avanti, anche per il morale. Ma è debole, ovviamente. Arriva a
pesare 58 chili, tredici meno di quando è in condizione. Affronta un viaggio
nuovo e imprevisto. A fine ottobre ne vede finalmente l’approdo.
“Non so
quale sia stato il periodo più difficile, in questi mesi. E’ successo tutto
così in fretta. Nemmeno sei mesi, dai primi sintomi del male ad oggi. Di primo
acchito penso ai giorni passati in ospedale, quelli in cui ho sofferto di più.
Mi davano la morfina e anche con quella passavo notti insonni. Non riuscivo a
stare nel letto, dovevo restare sollevato e passavo ore a fissare il vuoto come
un vegetale. Qualsiasi rumore mi dava fastidio, anche il fruscìo delle pagine
sfogliate di un giornale. Ma dopo le prime due sedute di chemio ho subito
sentito un miglioramento, e anche tornare a casa mi ha aiutato. Forse però,
pensandoci a freddo, le vere difficoltà sono arrivate dopo, perché ero finalmente
cosciente. Quando mi hanno diagnosticato il tumore ero in trance, mi lasciavo
cadere addosso tutto quanto. E’ dopo che inizi a renderti conto, a capire
quando qualcosa non funziona. Diventi ipersensibile. Alla decima seduta di
chemio ho iniziato a stare male per una saturazione da farmaci, provando quello
che altri meno fortunati di me provano fin dall’inizio. Ma per fortuna da lì in
poi è iniziata la rinascita. Il mio fisico è rifiorito. Guarda qui: ho ancora
un po’ di effetto-gonfiore, quello che lascia il cortisone assunto a dosi
massicce, ma non sono tornato un bel ragazzo?...”
Ride, Mario. Anche quando inizia a raccontare le tappe della
riconquista, prove così lontane per intensità da quelle cui era abituato quando si allenava in pista.
Eppure altrettanto decisive e importanti.
“Ascolto il
mio fisico e vedo il cambiamento giorno dopo giorno. Vado in palestra, metto il
“livello 1” sulla cyclette e genero una potenza di 30 watt, quando un tempo
arrivavo a 250. E dopo venti minuti sono stanco. Ma anche questa è una
conquista, come quando miglioravo i personali. Io e il mio fisico abbiamo iniziato
un percorso insieme. A volte è lui a dirmi “stai calmo”, a volte sono io ad
aver paura di esagerare. Ma vedere che risponde è semplicemente stupendo”.
CAMMINARE
SUL FILO
Adesso che del male può parlare guardando indietro, Mario Scapini
è un giovane uomo più forte dentro. Certi incroci col destino ti cambiano la
prospettiva. C’è una vita da vivere, e certamente è un’altra vita.
“Direi che
ho avuto un paio di input fondamentali, per affrontare il futuro. Il primo
riguarda il mio fisico: ho capito che non è invulnerabile e può fare brutti
scherzi. E poi ci sono quei giorni passati in un reparto oncologico del San
Raffaele, cercando di realizzare quello che succedeva a me e a chi mi stava
intorno: gli altri pazienti, alcuni miei coetanei. Ecco, lì ho capito davvero
che noi viviamo nell’incoscienza di quello che ci può accadere, ma intanto
camminiamo su un filo. Non so cosa mi ha dato la forza di reagire. Per come
sono fatto io, non parlerei nemmeno di reazione. Ho semplicemente pensato a
guarire. Quella era diventata la priorità, la mia Olimpiade. Quando all’inizio
si era pensato a un’infezione avevo detto “okay, sistemiamola”. Quando mi hanno
detto che era un linfoma, non ho pensato diversamente”.
E’ stato forte, Mario. Lo dicono tutti, anche se lui la mette giù
con semplicità: “C’ero dentro, dovevo
reagire, e mi è anche andata bene perché la situazione ha iniziato subito a
migliorare”. Intorno ha avuto gente forte quanto lui. Quelli che gli sono
stati più vicini sono gli stessi che non lo avevano mai abbandonato neppure
prima.
“I miei
genitori, naturalmente. Durante il mio ricovero, mio padre ha dormito là dentro
ventisette giorni su ventotto. Oddio, dormito è un eufemismo… passava le notti
buttato scomodamente su una poltrona. Mia madre non è stata da meno. E poi ho
avuto vicina la mia ragazza, Diletta. E il dottor Tavana che mi è venuto a
trovare subito. In quei momenti non parlavo nemmeno, ma sentivo bene la loro
presenza. Nel tempo sono venuti a dimostrarmi il loro affetto Gianni Ghidini,
il mio tecnico, e Matteo Guidotti, mio amico del cuore e compagno di
allenamento. A tutti loro devo qualcosa. Hanno sofferto con me, forse anche più
di me perché si sentivano spesso inadeguati, impossibilitati ad aiutarmi. E invece
non sanno quanto sono stati importanti”.
Tornato a casa, Mario ha scoperto di avere più amici di quanti
immaginasse. Un abbraccio collettivo, una processione di sentimenti che non
accenna a fermarsi.
“Mi hanno
chiamato tutti. Gli amici del mare, che per la prima volta si sono ritrovati in
Sardegna senza di me e quasi si sentivano in colpa… E poi il mondo
dell’atletica. Ferrari, il presidente della Pro Patria, gli atleti della
società, il mio ex tecnico Giorgio Rondelli. E ancora il presidente Arese e
tanti dirigenti della Fidal che neppure conoscevo di persona, gli atleti con
cui mi sono battuto in gara o ho condiviso i giorni dei raduni. Tutti, davvero.
Qualcuno si scusava, pensando di dire cose banali, invece mi hanno dato forza.
Ho scoperto di avere tanti amici, e soprattutto di non avere nemici. Ci può
stare: nella vita mi è sempre andato tutto bene, ho avuto genitori unici, amici
veri, gente intorno, insegnanti giusti a scuola, Rondelli che mi ha fatto
scoprire l’atletica quando pensavo solo al calcio. Mi sono trovato spesso al
posto giusto nel momento giusto, come agli Europei Juniores del 2007, con
quella vittoria nei 1500 che mi ha portato alla ribalta. Insomma, sono stato
molto fortunato. Credevo che tutta questa buona sorte potesse pesare a
qualcuno, anche giustamente in fondo. Invece devo dire che tutti, tutti, anche
quelli che avrei giustificato se non mi avessero chiamato, mi si sono
avvicinati con sincerità, col piacere di farsi sentire. Ci penso e mi dico che
forse qualcosa di buono l’ho fatto…”
QUALCOSA E’
CAMBIATO
Parla di opportunità che gli si sono aperte davanti come strade da
seguire. Di ricchezza che non deve andare perduta. Confessa, buttando un occhio
su questa giornata uggiosa, di aver avuto una vera, grande paura.
“Quella di
non poter tornare a fare quello che facevo nella mia vita precedente. Invece ci
arriverò, e intanto ho imparato a leggere in modo diverso anche le piccole
cose. Prima volevo tutto: finire la facoltà di Ingegneria nei tempi giusti,
essere un vincente nell’atletica. Nella stagione olimpica ho intensificato gli
sforzi sul campo d’allenamento: otto ore di Università e poi spesso doppio
allenamento. Se vivi così, tutto quello che hai intorno ti sembra dovuto. Oggi
vedo che sì, sono su un filo, ma guardo giù e ci sono tante cose che avevo
rimosso o dimenticato. Ogni conquista mi emoziona: ho gli occhi lucidi quando
pedalo sulla cyclette, che prima mi sembrava la peggior iattura per un atleta.
Mi sento felice e farò di tutto per coltivare questa fortuna e non disperderla.
Lo so, sembra una frase fatta per fare il figo, ma è la realtà. Dicono ci sia
un percorso logico per tutto quello che facciamo. Ora vedo che è così: ho
sofferto cinque mesi in cambio di un’esperienza che mi porterò dietro tutta la
vita. E’ stato un buon affare”.
RITORNO AL
FUTURO
La rinascita è partita dal raduno di San Vincenzo di inizio
dicembre, dove la Federazione lo ha voluto per riabbracciarlo. Tocca obiettivi
a cui ora si può appena accennare. Impervi e per questo affascinanti. Sono
traguardi a cui punterà uno Scapini nuovo di zecca. Diverso dentro.
“La chiamata
al raduno è stata una riconquista. Un’emozione immensa. Ma il ritorno vero, da
atleta, arriverà quando riuscirò di nuovo a correre con continuità e sicurezza.
Le Olimpiadi? Magari non le avrei agguantate, ma mi piace pensare di sì e le
considero un traguardo perso. Le ho viste in tv. O meglio, la prima parte me la
sono persa, in quei giorni ero poco presente a me stesso. Poi ho iniziato a
guardare le dirette dell’atletica. Senza audio, per quella faccenda del
fastidio a sentire rumori... Ho provato un po’ di invidia, è vero. Non perché
non ero là, ma nei confronti di quei ragazzi che gareggiavano ed erano il
ritratto della salute. Sì, lo ammetto: invidiavo il loro stare bene”.
L’atletica azzurra è uscita malconcia dalla trasferta londinese. E
schiacciata moralmente dal caso Schwazer.
“Non voglio
entrare nel merito di una scelta che certamente ha turbato me come tutto il
mondo dell’atletica. Non voglio fare il giudice, Alex ha preso decisioni
pesanti, che certamente lo hanno scosso e per le quali ora dovrà pagare. Ma
sono rimasto perplesso di fronte a una sua dichiarazione: ha detto che in tutti
questi anni ha sofferto, pensando alla preparazione olimpica. L’ha vissuta come
una tragedia. Ho pensato che anch’io facevo tragedie per una distorsione alla
caviglia e in qualche modo l’ho capito. Però erano proprio i giorni in cui mi
avevano appena diagnosticato un tumore, e non ho potuto fare a meno di pensare
che se mi dicessero che devo passare quattro anni a cercare di riconfermarmi
campione olimpico, beh, sarebbero i quattro anni migliori della mia vita…”
LA FORZA
DENTRO
Il bello della vita sono le cose semplici. Guardare avanti è una
cosa semplice, ma adesso significa molto di più. Aver provato cosa significa
stare in bilico, e poi aver ritrovato l’approdo. La buona terra, su cui
riprendere a camminare. E presto a correre, certo.
“Ai primi di
novembre ho avuto i risultati finali. I medici mi hanno dato carta bianca, ora
sta al mio fisico e a me. Il futuro? Io nella vita faccio tre cose: il
fidanzato, lo studente e l’atleta. Lo facevo anche prima, ma ora gli obiettivi
sono più chiari, ho dentro una enorme forza interiore che mi aiuterà a raggiungerli
e voglio recuperare il tempo perduto. Sono sincero: la prima cosa a cui ho
pensato è stata il matrimonio con Diletta. Credo sia il traguardo più
importante e quel giorno lo considererò una vittoria. Sto scrivendo la tesi per
la laurea in Ingegneria Meccanica, in aprile voglio che arrivi anche quella.
L’atletica? Sono realista: mi chiedo se il mio fisico mi permetterà di fare le
cose che facevo prima. Poi c’è spazio anche per i sogni, i desideri tipici di
un atleta: l’anno prossimo ci sono le Universiadi, un obiettivo un po’ pazzo ma
non impossibile. Ci sono altre Olimpiadi a cui pensare: lo facevo già in
ospedale, scherzando con medici e infermieri che mi dicevano che in fondo Rio è
più bella di Londra… Dall’altra parte c’è una persona che sa bene quello che ha
passato e pensa: magari per sei mesi non scendo sotto i cinque minuti a
chilometro nei mille, magari non ci scendo mai più. Beh, comunque vada sono
sereno: se non dovessi tornare ai miei livelli, sarò contento dell’atletica ad
alta quota che ho vissuto, se invece verranno altri anni gloriosi e felici me
li godrò più del normale…”
Mario guarda fuori dalla finestra. Milano è sempre più umida e
grigia, eppure è bella anche così. E’ meraviglioso respirare questo odore di
pioggia, in un autunno di rinascita.
“In quei primi giorni all’ospedale, quando stavo
malissimo, mi chiedevo se avrei mai ritrovato la voglia di correre. Mi sembrava
che non mi interessasse più nemmeno quello. Meno di una settimana dopo pensavo
già a quando mi sarei riallacciato le scarpe. In tre mesi ho attraversato un
oceano e sono tornato più ricco. Sto svegliando il cervello, riaprendo il
cuore, ricostruendo i muscoli. Ed è bellissimo”.
MARIO SCAPINI
è nato a Milano il 2 febbraio 1989. Da ragazzo amava e praticava il calcio, ed
è stato Giorgio Rondelli ad intuirne le doti e a convincerlo a dedicarsi a
tempo pieno all’atletica. Da allievo ha conquistato i primati nazionali di
categoria negli 800 e nei 1500, nel 2006 ha vinto gli 800 alle Gymnasiadi e nel
2007 è salito prepotentemente alla ribalta conquistando il titolo europeo
juniores dei 1500 metri ad Hengelo. Sempre da junior ha ottenuto la miglior prestazione
italiana nei 600 metri (1:17:70 nel 2008). Nel 2009 è stato campione italiano
sia negli 800 che nei 1500, sia nella categoria Under 23 che agli Assoluti.
Alla fine di quella stagione è stato uno degli “Eroi del running” designati
dalla nostra rivista. Nel 2010 è stato semifinalista negli 800 agli Europei di
Barcellona. E’ allenato da Gianni Ghidini. Nei 1500 ha un personale di 3:43:56
ottenuto a Trento nell’agosto 2009, mentre il primato sugli 800 lo ha ritoccato
all’ultima edizione del Golden Gala, il 31 maggio 2012, correndo in 1:46:95.
Proprio poco prima che la malattia lo fermasse.
RUNNER'S WORLD, gennaio 2013