di Marco Tarozzi
Il 27 settembre del 2004, Lodovico Lodi prese la solenne decisione. Stop al fumo, basta con
le sigarette. Per sempre. Nove anni esatti dopo, il 27 settembre del 2013, “Lodo”,
come lo chiamano gli amici a Bologna, ha realizzato il sogno della sua vita da
corsa, diventando un “finisher” alla Spartathlon. Uno dei dodici italiani che
ce l’hanno fatta quest’anno, il primo bolognese in assoluto. Tra queste due
date, che magicamente coincidono, ci sono quaranta maratone, trentadue gare di
ultratrail, dieci “100 chilometri” (comprese quattro edizioni del Passatore),
due 24 ore. E una bella storia da raccontare.
Lodovico era uno di quelli da “paglia e balotta”, come dicono da queste parti. Sigaretta per
rilassarsi e voglia di stare in compagnia con gli amici. Possibilmente al
Madigan’s, il pub appena dentro porta Lame che era, ed è ancora “una specie di seconda casa, per me…”. E
aveva altre passioni, ovviamente. Suonava la chitarra piuttosto bene in un
gruppo heavy metal, amava la fotografia. Passione, quest’ultima, trasmessa da
papà Gabriele, insieme a cui oggi porta avanti un avviatissimo studio
fotografico in centro. E poi c’era la moto, da cavalcare in libertà, in stile
Easy Rider. C’era tutto questo, nella vita di Lodo, e moto altro ancora. Ma non
c’era la corsa.
“Poi
è successo quello che capita a molti: senza fumare, ho messo su qualche chilo
di troppo. Ho scoperto di avere il colesterolo alto, valori un po’ sballati, e
ho cominciato a muovermi per rimettere in sesto la macchina. Tre chilometri,
poi cinque, dieci. Sono arrivato a correre la prima maratona nel 2009, appena
quattro anni fa. Mi sono sentito meglio, soprattutto mentalmente. Allora mi è
venuta la curiosità di esplorare i miei limiti, capire dove avrei potuto
arrivare con un po’ di determinazione. Non sono riuscito a fermarmi. La corsa è
una passione che non ti abbandona più, lo sappiamo. Solo che io ho continuato
ad allungare i chilometri nelle uscite, e più allungavo più mi piaceva…”
Se pensate a un fanatico del running estremo, siete fuori
strada. “Lodo” è un uomo tranquillo che facendo sport ha trovato un equilibrio
interiore ammirevole. Le sue avventure sono sfide personali che non
necessariamente diventano lotte col cronometro. Alla Spartathlon, per dire, ha
chiuso al 128mo posto, in 35 ore, 36 minuti e 38 secondi. Una ventina di minuti
sotto il limite massimo. Una scelta. “Perché
io su quelle strade ci tornerò, e questa volta avevo solo due obiettivi in
testa: capire questa corsa e arrivare in fondo. Fatte le debite proporzioni,
anche il grandissimo Ivan Cudin (terzo anche quest’anno nonostante una
caduta sul Partenio, ndr) ha iniziato
studiando il percorso, con un settimo posto, prima di vincerla due volte in
fila, nel 2010 e nel 2011. Io non sono Ivan, si capisce. Sono una persona
normale che ha un fisico allenato, tutto qui. Non sarò mai là davanti, a
giocarmi una vittoria. Ma ho allenato abbastanza la mente per vincere la mia
personalissima gara: questa volta volevo tagliare il traguardo e toccare,
subito dopo, il piede di Leonida, un gesto di rispetto che significa anche sfiorare
il mito con la mano”.
Quella leggenda Lodovico l’aveva in testa da tempo. Ma
alla Spartathlon non si arriva per caso, e non si corre per scherzo. A un certo
punto, ha capito che questo sarebbe stato l’anno buono.
“E’
la corsa che mi affascina più di tutte, in Europa. Ed è dura, ovviamente: 245,3
chilometri con circa tremila metri di dislivello e la salita al Monte Partenio,
dopo 155. A suo modo crudele: lungo il percorso ci sono settantacinque
check-points, se arrivi in ritardo anche soltanto in uno sei fuori. Ti tolgono
il pettorale. A un italiano è successo dopo 220 chilometri di gara. E’ come se
ti urlassero in faccia “This is Sparta!”, hai presente la scena del film “300”?
Ma è come correre immersi nella leggenda. Si dice che in cima al Partenio
Filippide abbia incontrato il dio Pan, che gli affidò il suo messaggio contro
il disamore degli ateniesi. La sua leggendaria ira ha dato vita al termine
“panico”, e io quel panico l’ho provato, salendo di notte lungo i sentieri del
monte. Sì, ho avuto anche paura: di cadere, di dovermi ritirare, di sentirmi
solo. E all’alba ne sono uscito rafforzato”.
Storia di lunghe corse e di profonda umanità. Come quella
che ha legato, per tanti chilometri di gara, Lodovico e altri due italiani. Un
viaggio insieme che si è trasformato in una bella amicizia. “Loro sono Giuseppe Cialdini e Loris De
Palma. L’ultima parte della gara, la più difficile anche dal punto di vista
emotivo, l’abbiamo vissuta insieme. Dividendo tutto, a cominciare dal nostro
grande sogno. Ci siamo fatti coraggio, ci siamo aiutati a vicenda, e ancora mi
emoziona ripensare a quei momenti. Per questo, appena superato il traguardo,
abbiamo intrecciato le nostre mani e la statua di Leonida abbiamo avuto
toccarla insieme. E’ stata una conquista corale, tre volontà forti per un unico
obiettivo”.
Ma Spartathlon è altro. Una preparazione che per “Lodo” è
quasi allegria, perché nonostante l’impegno e la fatica lui non riesce a vedere
la corsa senza divertimento. “Non sono
uno che fa dell’allenamento un assillo. Ma in questo periodo ho comunque
affrontato in media una ultratrail e una maratona al mese. Non so se continuerò
così, è un impegno importante, fisico e anche economico. Però mi è servito.
Ricordo che ad agosto non c’erano gare dalle mie parti, e allora quando i miei
genitori andavano al mare li seguivo, e sulla via del ritorno mi facevo
scaricare a Forlì e mi facevo settanta chilometri a piedi fino a Bologna, sulla
via Emilia. Una domenica ho trovato a farmi compagnia la staffetta podistica
che andava in città per commemorare il 2 agosto. E’ stata una scoperta
piacevolissima: ho trovato ristori, assistenza, forze dell’ordine a regolare il
traffico e una compagnia che cambiava di continuo, perché loro si passavano il
testimone e io ero l’unico fattore che non cambiava mai. Un bel modo di fare
nuove amicizie”.
Lodovico è un “finisher”, ha corso da Atene a Sparta
senza fermarsi né dormire per un giorno e mezzo. Ma non si sente un eroe per
questo.
“Gli
eroi sono altri, anche fuori dalla corsa. Io sono un uomo normale che si mette
alla prova. E se mi danno del pazzo dico che è vero, noi ultramaratoneti siamo
una bella banda di matti. Ma è pazzo anche chi se ne sta sei ore su un divano a
guardare la televisione, chi non fa un passo senza usare la macchina, chi non
cura sé stesso col movimento. Ci siamo dimenticati da dove veniamo. Eravamo
cacciatori e corridori, il corpo umano è quello di allora, ma si è “cementato”.
Io provo soltanto a liberarmi dalle scorie, ed è un gioco di gambe, cuore e
soprattutto cervello. Non voglio insegnare niente a nessuno, ma la corsa mi fa
stare bene e nell’ultratrail ho scoperto il mio mondo. Fatto di gente semplice,
di rapporti veri, di lacrime di rabbia e di gioia. Non ne uscirei per nulla al
mondo”.
Runner's World
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