Ottantacinque primavere, proprio oggi. E il bello è che
ne ha vissute più qui in Italia che dall’altra parte dell’oceano. Perché l’uomo
di Evanston, Illinois, ha deciso da tempo che la sua America è qui, nel
Belpaese. E per quanto lo abbia girato, per quanto da tempo Milano sia il
centro esatto del suo mondo, resta il fatto che per Daniel Lowell Peterson
tutto è iniziato da Bologna, e dalla Virtus. Un racconto lungo e ricchissimo,
iniziato nell’estate 1973.
COLPO
A SORPRESA. Nico Messina ha finito la sua avventura sulla panchina
della Virtus, e Gigi Porelli, l’Avvocato della storia e della gloria, va in
cerca di maestri proprio là dove la pallacanestro ha mosso i primi passi. Si
rivolge a Richard Kaner, agente di John Fultz, per cercare il nuovo timoniere,
e la pronta proposta è Rollie Massimino, prestigioso allenatore di college da
poco meno di un ventennio. Ma quando l’affare sembra fatto il coach firma per
Villanova, e allora Kaner si mette di nuovo alla ricerca e in quattro e
quattr’otto sfodera un nuovo nome. Pressoché sconosciuto, però. Questo Dan Peterson,
che sbuca all’improvviso, ha due lauree, è insegnante di basket ed ha
conseguito il titolo accademico in Sport Administration alla Michigan University.
Dopodiché è volato in Cile a guidare quella che lui stesso definirà “la
Nazionale più bassa del mondo”, portandola a risultati insperati.
TOM
DOOLEY E CANESTRI. Porelli si fida di Kaner, l’affare si fa.
Peterson approda a Bologna e certamente non passa inosservato: look da rocker,
pantalone a zampa d’elefante, capelli a caschetto che cadono sulle spalle. Suona
anche la chitarra, virando alle ballate folk: quella di Tom Dooley diventerà un
“must” nelle serate con gli amici bolognesi. Insomma, a qualcuno scappa anche
un mezzo sorriso, ma lui ci mette un attimo a diffondere il suo verbo: in poco
tempo diventa padrone dello spogliatoio, diffondendo carisma e leadership. E’
autorevole, testardo, esigente. E’ passata alle antologie dell’aneddotica la
reazione di Gigi Serafini quando il coach chiarisce di voler introdurre la
regola dei due allenamenti. “Mi sembra un numero giusto”, commenta Gigi, prima
che gli venga spiegato che si tratta di due sedute quotidiane, non settimanali.
DI
NUOVO AL VERTICE. Alla prima stagione, la Virtus di Peterson
conquista la Coppa Italia, trascinata da Fultz. Nel 1976 arriva anche lo
scudetto, il settimo, vent’anni esatti dopo l’ultima grande gioia. In campo ci
sono Driscoll, Caglieris, Serafini, Antonelli, “l’americano d’Italia” Gianni
Bertolotti, un giovanissimo Marco Bonamico. La Virtus deve tanto a Dan, lui
deve tanto alla Virtus e non lo dimenticherà mai. Anche quando, dopo aver
brillato a Bologna, prende la strada di Milano andando a guidare l’Olimpia, dove
vincerà quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Korac e due Coppe Italia.
Nel 1987, a soli 51 anni, Peterson dice basta. Si inventa un nuovo modo di
raccontare la pallacanestro, porta la Nba nelle case degli italiani con le
telecronache sulle reti Mediaset, dove introduce anche lo spettacolo del
wrestling, diventa pure testimonial pubblicitario. Torna sulla panchina di
Milano nel 2011, a 75 anni, per chiudere una stagione nata male: è l’eterno
ragazzo di sempre.
PER
NOI, NUMERO UNO. Oggi dice che per rilanciare la
pallacanestro in Italia bisognerebbe tornare un po’ indietro, limitando il
numero degli stranieri nel roster. Poi, si diverte a stilare la classifica del
quintetto ideale della sua lunga avventura italiana: c’è molta Milano, ma in
posizione di “quattro” mette sempre Terry Driscoll, l’uomo che guidò la sua
Virtus in campo e poi ne raccolse l’eredità, vincendo altri due scudetti da
coach. Insomma, nel suo concetto di basket c’è sempre un po’ di quella Bologna
che gli ha aperto la via italiana al basket. Per noi numero uno, forever.
Marco Tarozzi
Più Stadio, 9 gennaio 2021