di Marco Tarozzi
Più di quarant'anni dopo, il vecchio ragazzo di Augsburg ha ancora nella
memoria, nitidissimi, quei primi istanti della sua avventura bolognese. La
città così nuova e così impossibile da capire in quella prima camminata di
studio, durata pochi minuti. Più di quarant'anni dopo, Helmut Haller ha ancora
un filo di allegria nella voce, mentre accende il canale dei ricordi.
“Arrivai in treno dalla
Germania, scesi in stazione e c'era Lele Sansone ad attendermi. Mi portò nella
mia nuova casa, in via Amendola, e la mia prima passeggiata bolognese finì lì,
più o meno trecento metri. Non si può dire che sia stata molto approfondita”.
Il tempo, del resto, non sarebbe mancato. Sei lunghi anni, passati a
coltivare un amore che avrebbe resistito nel tempo, a giocare in Paradiso e ad
alta quota, a regalare emozioni con quello stile divertente e divertito, da
sudamericano più che da tedesco.
“Il problema, appunto, è
che sono passati tutti questi anni dalla prima partita che giocai con la maglia
rossoblù addosso. Il tempo vola, purtroppo. Era l'estate del '62, di lì a poco
avrei iniziato il mio primo campionato italiano, stagione '62-63, e ci misi
poco a capire che quel gruppo sarebbe andato lontano. Ero un ragazzino, ventitrè
anni appena compiuti. Sansone mi aveva notato durante una partita della
Nazionale tedesca contro l'Uruguay, in cui avevo fatto davvero ottime cose. Si
era segnato il mio nome e al ritorno a Bologna aveva tanto detto e tanto fatto
da far innamorare il presidente Dall'Ara”.
Già, il presidente. Il primo cittadino rossoblù, e anche il primo a
invaghirsi di quel ragazzo tedesco che in campo si divertiva a far impazzire i
diretti avversari, e quando proprio voleva strafare li metteva direttamente a
sedere, ubriachi di finte e di dribbling. Brasiliano di Germania, appunto.
“Forse aveva ragione
Italo Cucci, che una volta scrisse su “Stadio” che il sottoscritto era un
napoletano nato per pura combinazione nel Nord Europa. Beh, io a fare amicizia
con la gente ci mettevo davvero poco. E con Dall'Ara fu una specie di colpo di
fulmine, per entrambi. Lui venne a vedermi tre volte in Germania, e in un paio
di occasioni gli capitarono anche incidenti con l'auto sulla via del ritorno.
L'ultima volta fu storica: avevamo chiuso da poche ore il contratto che mi
legava al Bologna, Dall'Ara uscì dalla macchina ammaccata e gli chiesero se
andava tutto bene. Nessun problema, rispose lui, il contratto di Haller non è
andato perduto e questa è la cosa più importante. Era favoloso, Dall'Ara. E'
vero che mi aveva preso a ben volere, ma le stesse attenzioni le aveva per
Nielsen, per lo stesso Demarco. Nei confronti degli stranieri aveva la
sensibilità di chi non vuole farti sentire la nostalgia di casa. Se ne andò
troppo presto, non fece in tempo a vedere il capolavoro di Roma, ad accarezzare
quello scudetto che era suo. Ma all'Olimpico giocammo davvero pensando a quello
che aveva fatto per noi, e fu una forza in più, come se lui ci guidasse in
campo”.
Il settimo sigillo, l'ultimo. E per molti è come se il tempo si fosse
fermato lì, regalando paragoni scomodi a chi è venuto dopo. “Quella fu davvero una grande squadra,
irripetibile credo. Eravamo tutti giovani, ragazzi tra i ventidue e i
venticinque anni, e sembrava giocassimo a memoria. Tecnicamente ci superavano
in pochi, e poi Bernardini ci dette tantissimo dal punto di vista tattico. Per
me, così giovane, fu il massimo arrivare allo scudetto dopo appena due stagioni
in Italia. In quel modo, poi, con quello spareggio e tutto il clamore che c'era
stato per il presunto caso di doping. Fu emozionante, il più bel momento della
mia carriera”.
Dopo nacquero certe storie metropolitane, magari ingigantite ma
evidentemente alimentate da “fatti realmente accaduti”. Ma si sa, quando dentro
un gruppo ci sono campioni di razza i dualismi diventano un prezzo da pagare.
Haller e Nielsen, per esempio.
“Io e Harald avevamo
caratteri diversi. Questo l'hanno capito tutti, direi. Ma in campo ci
rispettavamo e ci capivamo al volo, poco ma sicuro. Il faro, comunque, era
Bulgarelli, che già allora in campo si muoveva da leader riconosciuto. E
personalmente ho amato molto il gioco di Fogli. Lui sì che sembrava un
brasiliano, quando toccava la palla. Davvero, giocavamo un football
formidabile, tecnicamente eccezionale. Ma non ricominciate con quella storia.
Io Nielsen non l'ho mai odiato”.
Qualche anno fa, il Bologna si è ritagliato di nuovo un po' di spazio in
Europa, anche se i tempi e le ambizioni sono cambiate. D'altra parte, quel
Bologna che faceva tremare il mondo non ebbe troppa fortuna europea. “Penso a quelle sfide stregate contro
l'Anderlecht. Perdemmo 1-0 a Bruxelles, al ritorno vincevamo 2-0 e loro
segnarono il gol del 2-1 nei minuti finali. Andammo a giocarci lo spareggio a
Barcellona e ci capitarono non so più quante occasioni. Niente, il pallone non
voleva saperne di entrare in porta. Avremmo potuto giocare tre ore in fila e mi
sa che saremmo rimasti inchiodati sullo 0-0. Alla fine ci condannò una
maledetta moneta. Ma resto convinto che quella squadra, in quegli anni, avrebbe
potuto fare strada in Coppa dei Campioni”.
L'antico ragazzo guarda avanti, ma ha ricordi così belli che non può
evitare di sfogliarli, ogni tanto. “Ma
cerco di evitare troppi paragoni tra il calcio di allora e quello di oggi. Dico
solo che adesso è tutto molto più rapido, e la tecnica è un dono sempre più
raro. E si gioca troppo, aumentano gli infortuni e non è un caso. Sessanta
partite all'anno sono troppe, non ci sono i tempi giusti per il recupero. Noi
potevamo giocare tranquillamente fino a trentotto, trentanove anni, ora ci si
consuma più in fretta. Del resto, ai miei tempi ci si allenava molto meno. Ma
eravamo più eleganti, non vedo più il gusto del dribbling, dell'uno contro uno”.
Helmut Haller ci andava matto, e con lui il popolo rossoblù. “Ero molto sentimentale nei confronti del
pubblico. Ma con giudizio, s'intende: guardavo sempre prima al risultato, ma se
poi si poteva regalare un po' di spettacolo alla gente, perché negarsi?”
Il calcio di oggi regala anche contratti miliardari, impensabili
quarant'anni fa. Rimpanti? “E perché?
Undici anni d'Italia, tra Bologna e Torino, mi hanno regalato tre scudetti e mi
hanno fatto crescere anche come uomo. Ho una scuola calcio, ho allenato i
ragazzini, ho fatto lezioni anche a Cuba e in Giappone. Se stai in mezzo ai
giovani resti giovane. Beh, a dirla tutta un rammarico ce l'ho: ho pensato per
anni a una bella partita con i compagni di allora, magari da giocare in Riviera
contro la Nazionale cantanti, per beneficenza, qualcosa di bello che ci
accendesse anche il canale dei ricordi. Sì, è un sogno che non sono riuscito ad
avverare. Ma le occasioni per girare intorno a Bologna le ho avute, anzi me le
sono create. Quando vengo lì è sempre un po' come tornare a casa”.
HELMUT HALLER è nato ad
Augsburg, in Germania, il 21 luglio 1939. Regista votato all'attacco, arrivò a
Bologna dalla squadra della sua città nel 1962. Restò in rossoblù per sei
stagioni, collezionando 179 presenze e 48 reti, e vincendo lo storico settimo
scudetto, nel '64. Nel '68 passò alla Juventus, dove avrebbe vinto altri due
scudetti nel '72 e nel '73. Con la Nazionale tedesca ha debuttato a 19 anni,
nel '58, e ha partecipato a tre Mondiali: Cile '62, Inghilterra '66 (suo il gol
d'apertura della finale vinta dagli inglesi), Messico '70.