venerdì 12 ottobre 2012

HALLER, BRASILIANO DI GERMANIA

L'ultima volta che intervistai Helmut. Per "La Voce del Campione", il libro con le interviste a 25 grandi stelle dello sport a Bologna. Era il 2007. Non chiamai Giacomino perché sapevamo tutti come stava e non volli disturbarlo. Anche Haller aveva avuto problemi notevoli di salute. Provava a riprendersi, e fu gentilissimo. Disse che quando lo chiamava qualcuno da Bologna era contento, perché gli riportava alla mente anni felici.
Ciao campione, eri la fantasia nel calcio...

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di Marco Tarozzi
 
Più di quarant'anni dopo, il vecchio ragazzo di Augsburg ha ancora nella memoria, nitidissimi, quei primi istanti della sua avventura bolognese. La città così nuova e così impossibile da capire in quella prima camminata di studio, durata pochi minuti. Più di quarant'anni dopo, Helmut Haller ha ancora un filo di allegria nella voce, mentre accende il canale dei ricordi.

 “Arrivai in treno dalla Germania, scesi in stazione e c'era Lele Sansone ad attendermi. Mi portò nella mia nuova casa, in via Amendola, e la mia prima passeggiata bolognese finì lì, più o meno trecento metri. Non si può dire che sia stata molto approfondita”.

Il tempo, del resto, non sarebbe mancato. Sei lunghi anni, passati a coltivare un amore che avrebbe resistito nel tempo, a giocare in Paradiso e ad alta quota, a regalare emozioni con quello stile divertente e divertito, da sudamericano più che da tedesco.

“Il problema, appunto, è che sono passati tutti questi anni dalla prima partita che giocai con la maglia rossoblù addosso. Il tempo vola, purtroppo. Era l'estate del '62, di lì a poco avrei iniziato il mio primo campionato italiano, stagione '62-63, e ci misi poco a capire che quel gruppo sarebbe andato lontano. Ero un ragazzino, ventitrè anni appena compiuti. Sansone mi aveva notato durante una partita della Nazionale tedesca contro l'Uruguay, in cui avevo fatto davvero ottime cose. Si era segnato il mio nome e al ritorno a Bologna aveva tanto detto e tanto fatto da far innamorare il presidente Dall'Ara”.

Già, il presidente. Il primo cittadino rossoblù, e anche il primo a invaghirsi di quel ragazzo tedesco che in campo si divertiva a far impazzire i diretti avversari, e quando proprio voleva strafare li metteva direttamente a sedere, ubriachi di finte e di dribbling. Brasiliano di Germania, appunto.

“Forse aveva ragione Italo Cucci, che una volta scrisse su “Stadio” che il sottoscritto era un napoletano nato per pura combinazione nel Nord Europa. Beh, io a fare amicizia con la gente ci mettevo davvero poco. E con Dall'Ara fu una specie di colpo di fulmine, per entrambi. Lui venne a vedermi tre volte in Germania, e in un paio di occasioni gli capitarono anche incidenti con l'auto sulla via del ritorno. L'ultima volta fu storica: avevamo chiuso da poche ore il contratto che mi legava al Bologna, Dall'Ara uscì dalla macchina ammaccata e gli chiesero se andava tutto bene. Nessun problema, rispose lui, il contratto di Haller non è andato perduto e questa è la cosa più importante. Era favoloso, Dall'Ara. E' vero che mi aveva preso a ben volere, ma le stesse attenzioni le aveva per Nielsen, per lo stesso Demarco. Nei confronti degli stranieri aveva la sensibilità di chi non vuole farti sentire la nostalgia di casa. Se ne andò troppo presto, non fece in tempo a vedere il capolavoro di Roma, ad accarezzare quello scudetto che era suo. Ma all'Olimpico giocammo davvero pensando a quello che aveva fatto per noi, e fu una forza in più, come se lui ci guidasse in campo”.

Il settimo sigillo, l'ultimo. E per molti è come se il tempo si fosse fermato lì, regalando paragoni scomodi a chi è venuto dopo. “Quella fu davvero una grande squadra, irripetibile credo. Eravamo tutti giovani, ragazzi tra i ventidue e i venticinque anni, e sembrava giocassimo a memoria. Tecnicamente ci superavano in pochi, e poi Bernardini ci dette tantissimo dal punto di vista tattico. Per me, così giovane, fu il massimo arrivare allo scudetto dopo appena due stagioni in Italia. In quel modo, poi, con quello spareggio e tutto il clamore che c'era stato per il presunto caso di doping. Fu emozionante, il più bel momento della mia carriera”.

Dopo nacquero certe storie metropolitane, magari ingigantite ma evidentemente alimentate da “fatti realmente accaduti”. Ma si sa, quando dentro un gruppo ci sono campioni di razza i dualismi diventano un prezzo da pagare. Haller e Nielsen, per esempio.

“Io e Harald avevamo caratteri diversi. Questo l'hanno capito tutti, direi. Ma in campo ci rispettavamo e ci capivamo al volo, poco ma sicuro. Il faro, comunque, era Bulgarelli, che già allora in campo si muoveva da leader riconosciuto. E personalmente ho amato molto il gioco di Fogli. Lui sì che sembrava un brasiliano, quando toccava la palla. Davvero, giocavamo un football formidabile, tecnicamente eccezionale. Ma non ricominciate con quella storia. Io Nielsen non l'ho mai odiato”.

Qualche anno fa, il Bologna si è ritagliato di nuovo un po' di spazio in Europa, anche se i tempi e le ambizioni sono cambiate. D'altra parte, quel Bologna che faceva tremare il mondo non ebbe troppa fortuna europea. “Penso a quelle sfide stregate contro l'Anderlecht. Perdemmo 1-0 a Bruxelles, al ritorno vincevamo 2-0 e loro segnarono il gol del 2-1 nei minuti finali. Andammo a giocarci lo spareggio a Barcellona e ci capitarono non so più quante occasioni. Niente, il pallone non voleva saperne di entrare in porta. Avremmo potuto giocare tre ore in fila e mi sa che saremmo rimasti inchiodati sullo 0-0. Alla fine ci condannò una maledetta moneta. Ma resto convinto che quella squadra, in quegli anni, avrebbe potuto fare strada in Coppa dei Campioni”.

L'antico ragazzo guarda avanti, ma ha ricordi così belli che non può evitare di sfogliarli, ogni tanto. “Ma cerco di evitare troppi paragoni tra il calcio di allora e quello di oggi. Dico solo che adesso è tutto molto più rapido, e la tecnica è un dono sempre più raro. E si gioca troppo, aumentano gli infortuni e non è un caso. Sessanta partite all'anno sono troppe, non ci sono i tempi giusti per il recupero. Noi potevamo giocare tranquillamente fino a trentotto, trentanove anni, ora ci si consuma più in fretta. Del resto, ai miei tempi ci si allenava molto meno. Ma eravamo più eleganti, non vedo più il gusto del dribbling, dell'uno contro uno”. Helmut Haller ci andava matto, e con lui il popolo rossoblù. “Ero molto sentimentale nei confronti del pubblico. Ma con giudizio, s'intende: guardavo sempre prima al risultato, ma se poi si poteva regalare un po' di spettacolo alla gente, perché negarsi?”

Il calcio di oggi regala anche contratti miliardari, impensabili quarant'anni fa. Rimpanti? “E perché? Undici anni d'Italia, tra Bologna e Torino, mi hanno regalato tre scudetti e mi hanno fatto crescere anche come uomo. Ho una scuola calcio, ho allenato i ragazzini, ho fatto lezioni anche a Cuba e in Giappone. Se stai in mezzo ai giovani resti giovane. Beh, a dirla tutta un rammarico ce l'ho: ho pensato per anni a una bella partita con i compagni di allora, magari da giocare in Riviera contro la Nazionale cantanti, per beneficenza, qualcosa di bello che ci accendesse anche il canale dei ricordi. Sì, è un sogno che non sono riuscito ad avverare. Ma le occasioni per girare intorno a Bologna le ho avute, anzi me le sono create. Quando vengo lì è sempre un po' come tornare a casa”.

HELMUT HALLER è nato ad Augsburg, in Germania, il 21 luglio 1939. Regista votato all'attacco, arrivò a Bologna dalla squadra della sua città nel 1962. Restò in rossoblù per sei stagioni, collezionando 179 presenze e 48 reti, e vincendo lo storico settimo scudetto, nel '64. Nel '68 passò alla Juventus, dove avrebbe vinto altri due scudetti nel '72 e nel '73. Con la Nazionale tedesca ha debuttato a 19 anni, nel '58, e ha partecipato a tre Mondiali: Cile '62, Inghilterra '66 (suo il gol d'apertura della finale vinta dagli inglesi), Messico '70.

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