Questione di carattere. Perché c’è sempre una prima
volta, e quella di Valentina Alberti
con il pugilato è stata da dentro o fuori. Girare i tacchi e andarsene o farsi
coinvolgere per sempre. Non è un ricordo sbiadito, basta andare indietro di
appena cinque anni.
“Era
il 2010, non facevo sport da un po’ e avevo preso qualche chilo. Ero arrivata a
pesarne ottanta. In Bolognina, il mio quartiere, c’è la palestra Tranvieri che
è un pezzo di storia dello sport cittadino. Sapevo che lì dentro si tirava di
boxe, una disciplina che in qualche modo mi affascinava. Beh, per farla breve:
entro e in questo ambiente non certo enorme e quindici ragazzi si voltano a
fissarmi. Ho detto: bene, vado avanti. Chissà: ci fossero state una decina di
ragazze pronte ad accogliermi con un sorriso, magari avrei salutato e sarei
tornata a casa”.
E’ fatta così, Valentina. Ama le sfide. Altrimenti non si
spiegherebbe la scelta di salire su un ring a sedici anni, una decisione
talmente sua che per qualche tempo non ne ha messo al corrente nemmeno la
famiglia.
“Mamma
mi vedeva tornare con la borsa e pensava andassi a fare ginnastica. Prima di
tutto l’ho detto a lei, quando sono stata certa di aver trovato la mia strada.
Poi a papà, la cui idea di pugilato erano i film di Rocky, quelli dove ci si
picchia “senza futuro” per quindici riprese, e dunque era spaventatissimo. Un po’
alla volta gli ho fatto capire che le cose stavano molto diversamente”.
Resta il fatto che passare da uno sport di squadra a una
disciplina in cui sei davvero solo con i tuoi pensieri e le tue strategie, in
mezzo al quadrato, è un bel cambio di visuale.
“Ho
giocato a basket per dieci anni, prima in Fortitudo poi a Castel San Pietro.
Bello, ma nel pugilato ho imparato a fare squadra molto più che tra i canestri.
Sono fatta così. Non mi sento mai sola, in palestra. Lì quelli che hai intorno
sono sempre dalla tua parte, e tu ti
batti anche per loro. Ogni vittoria è una vittoria di tutti”.
Soprattutto di quelli che hanno visto Valentina arrivare
in palestra, e poi l’hanno aiutata a crescere e a diventare una delle migliori in
Italia. Là, dentro alla mitica “Tranvieri”, qualcuno ha avuto la vista lunga.
“Devo
dire grazie al maestro Sergio Rosa, che è un’istituzione per la boxe bolognese.
E poi a Sergio Di Tullio, che mi ha allenata e un giorno, dopo il mio primo
combattimento, mi ha detto “devi continuare, tu farai strada”. Aveva ragione”.
Poi Valentina ci ha messo del suo. Perché questo sport
non fa regali, non offre scorciatoie. Devi allenarti, per arrivare. E sodo.
“Ho
avuto fortuna. Oggi faccio parte dell’Esercito, e questo mi dà sicurezze in più
per il futuro. Perché non è facile, con questi ritmi, andare avanti come uno
vorrebbe fuori dal ring. La scuola, ad esempio: mi ero iscritta a Scienze
Internazionali e diplomatiche, a Forlì, ma ora sono al Centro Nazionale
Federale di Assisi quasi tutto il tempo, torno a Bologna due giorni al mese. E
qui faccio anche tre sedute al giorno. Non è facile tenere tutto in equilibrio.
Ma questa è la mia scelta, e il pugilato è uno sport che non ti regala niente,
non prevede scorciatoie. se vuoi ottenere qualcosa, devi sacrificarti”.
Anche mentalmente. Perché la boxe è tattica, studio
dell’avversario, concentrazione, capacità di interpretare il match e di
trovarne la soluzione.
“E’
uno sport di situazione. C’è un momento in cui capisci come può finire, in cui
devi essere capace di prendere in mano la situazione. Trovare il ritmo giusto,
il colpo che lascia il segno anche su chi deve giudicarti a bordoring… Se non
cogli l’attimo, è finita”.
Ancora otto, nove anni, assicura. C’è tempo per pensare
anche alle Olimpiadi. Un sogno che neppure accarezzava, quel giorno in cui si
affacciò alla Tranvieri. Cresciuto nel tempo, e oggi diventato forse qualcosa
di più. Perché questa ragazza ha la
faccia decisa di chi vuole ancora progredire. E migliorare, a questo punto,
significa assicurarsi un posto ai vertici.
“Sì,
credo che se continuo a lavorare così un’Olimpiade potrebbe essere alla mia
portata, in futuro. Teniamo conto che non sto parlando di Rio, dove la mia
categoria, i superleggeri, non è prevista. Bisogna puntare a Tokio 2020, e a
quel punto avrò ventisei anni, sarò nel pieno della maturità atletica. Devo,
voglio provarci. Poi, se davvero Roma portasse a casa l’edizione del 2024, beh,
allora dovrei combattere di sicuro fino a trent’anni…”
Va avanti così, Valentina Alberti. Un po’ di nostalgia
per la sua città, che è stata una culla della “noble art”, così appassionata da
costruire un palasport intorno alle imprese di Checco Cavicchi che trascinava
le folle. Per la sua famiglia, che adesso ha capito che il pugilato non è la
faccia sanguinante di Rocky Balboa. Pochi esempi da seguire, “perché a questa disciplina non sono
arrivata vedendo incontri in tv, così mi ispiro semplicemente alle mie compagne
di Nazionale, che hanno fatto la storia della boxe femminile in Italia”. E
la voglia di non mollare, di non arretrare mai di un passo. La “cazzimma”, come si dice. Roba per
pochi.
“Bisogna
crederci, in questo sport. Se mi chiedi di descriverlo, mi basta usare tre
parole. Testa, gambe, cuore. Con le prime due cresci tecnicamente, ma senza il
cuore non diventerai mai vincente”.
("Ambiente", ottobre 2015)