di Marco Tarozzi
Tutto è
iniziato da quell’armadio a parete. Cioè, una via di mezzo tra un armadio e un
espositore. Però enorme, altissimo e massiccio. Fatto in casa. Restando in
religioso silenzio davanti a quel mobile monumentale, Veronica Inglese si è innamorata dell’atletica leggera. Dentro,
tutte le coppe e i trofei vinti da papà Michele durante una carriera di forte
mezzofondista, che lo portò a conquistare anche un titolo italiano di corsa su
strada quando era uno junior di grandi speranze. Una specie di santuario della
corsa, roba che può incantare gli occhi di una bambina.
“Da piccola mi fermavo a guardarlo, e
inquadrando quelle coppe a una a una mi veniva voglia di sapere da dove
venivano, quanto erano costate in fatica e sudore. Così, chiedevo a papà di
raccontarmi la sua atletica. Non era lui a vantarsi del suo passato, anzi. Ero
proprio io a insistere, e allora lui apriva il canale dei ricordi”.Sì, papà Michele non ha peccato di fanatismo, non ha mai voluto che quella figlia ripercorresse a forza le sue orme. Le ha lasciato la libertà di scegliere la sua strada nello sport. Solo che lei, Veronica, aveva già deciso tutto da tempo. Davanti a quell’armadio a parete.
“Voglio correre anche io, gli dicevo.
E lui schiacciava il freno. Ci ha messo tanto a convincersi che quella era
davvero la mia strada, prima ha voluto che facessi altre cose, danza, nuoto,
come tante ragazzine della mia età. Voleva che crescessi e ci riflettessi bene,
perché non si può confondere una suggestione con una scelta. Ma io, testarda.
Dopo aver corso le prime gare dei Giochi della Gioventù, la prima volta in
assoluto arrivando anche piuttosto indietro, tornai da lui e gli dissi “okay,
adesso voglio allenarmi”. Mi guardò e mi disse “d’accordo, corriamo un po’
insieme”. E mi portò sul lungomare della mia città, Barletta, e ad affrontare
le prime strade in salita nella campagna intorno”.
L’EREDITA’ DI PIETRO
Nell’immaginario
dell’atletica italiana, Barletta richiama immediatamente la leggenda. Eppure
non è stato l’esempio di Pietro Mennea ad accendere la passione di Veronica.
Lei ne aveva uno direttamente in casa.
“Quando ho iniziato a frequentare il
campo di atletica le società erano parecchie, c’era solo l’imbarazzo della
scelta. Io finii all’Atletica Barletta dove allenava Mimmo Ostuni, che era
stato anche il tecnico di papà. Gli chiese di portarmi in pista dopo avermi
vista alla fase regionale di cross dei Giochi, e così divenne il mio primo
allenatore. Era veramente un bel periodo, il gruppo era numeroso e fare
atletica era un’idea collettiva, uno stare insieme. Oggi non è più così. Non
voglio fare analisi sociali, ma certamente sono rimasta legata a una
generazione diversa, nonostante non sia certo “vecchia”. Una bimba di dieci
anni non aveva con sé il cellulare, non c’erano i computer e internet in cui
rifugiarsi, non come oggi almeno. Le distrazioni erano fare sport, giocare con
gli amici, vivere il cortile”.
Non c’era più
nemmeno l’ombra immensa di Pietro il velocista, su quelle corsie.
“Mennea era un buon amico di mio padre.
Quando scendeva da Formia, faceva anche allenamenti di corsa lunga per allenare
la resistenza, e gli chiedeva di accompagnarlo in un giro di una decina di
chilometri che parte dal campo. Per lui, velocista, era un impegno notevole. Io
non l’ho mai conosciuto di persona, ci ho parlato qualche volta al telefono e
ho provato una certa emozione. Ora che non c’è più, viene molto ricordato.
Monumenti, targhe. Barletta lo ha un po’ riscoperto, secondo me. Ma prima
viveva soprattutto nei ricordi di chi aveva fatto atletica con lui, gente come
papà o il professor Montenero, che raccontava aneddoti bellissimi sulla sua
crescita. I concittadini erano un po’ più tiepidi. Non hanno mai tratto una
vera ispirazione dal suo percorso. E quando si presentò alle elezioni per la
carica di sindaco, non fu votato da tanti. Forse è davvero difficile essere
profeti in patria”.
NASCITA DI UN TALENTO
Quella prima
gara, vissuta dalle retrovie, sarebbe diventata presto un semplice ricordo. Già
nella categoria Cadette, il nome di Veronica Inglese assunse un significato
nuovo e diverso per chi sa trattare l’argomento.
“Da ragazza finivo sempre seconda o
terza in regione. Al primo anno da cadetta i regionali di cross li ho vinti,
finendo poi settima nella gara di campionato italiano, e d’estate quarta ai
tricolori nei 2000 metri in pista. Poi, al secondo anno in categoria, ho vinto
praticamente tutto: tricolori di cross, quello sui 1000 metri in pista, il
Criterium sulla pista di Bisceglie, davanti alla mia gente, gli Studenteschi. Un
bel passo avanti. A quindici anni ho iniziato a capire che volevo davvero
continuare, per vedere dove sarei potuta arrivare. Ad avere più speranze nei
confronti del mio futuro da atleta. A pensare ai titoli italiani, alla maglia
azzurra, cose così, bellissime. E’ stato un cambio di mentalità: da piccola ti
si aprono davanti mille porte, e vorresti attraversarle tutte. Però ho avuto
anche fortuna, da ragazzina: vincere delle gare mi ha regalato soddisfazioni ed
emozioni che poi mi hanno spinta ad andare avanti, a guardare più lontano con
la voglia di arrivare”.
Anni intensi,
formativi. Di sport e studio. E anche quelli in cui, proprio nell’ambiente
dell’atletica, Veronica ha trovato un equilibrio perfetto anche negli affetti.
“Ho frequentato il liceo classico, non
una passeggiata. E adesso sono iscritta al terzo anno di Giurisprudenza. Devo
tanto anche a mia madre, in tutto questo. Lei non ha un passato di atleta,
insegna alle elementari, ma mi ha sostenuto nelle mie scelte, proprio come
papà. Io sono una ragazza, in famiglia avrebbero potuto chiedermi un altro tipo
di impegno, e invece mamma mi ha sempre detto “tu pensa a studiare e allenarti,
al resto penso io”. E poi, sì, nel 2008 è arrivato Eusebio. Che mi assomiglia e
mi capisce”.
Eusebio
Haliti, da otto anni l’altra metà di Veronica. Azzurro, specialista dei 400
ostacoli, un titolo italiano nel 2013, con la sua nuova nazionalità, lui nato
in Albania da una stirpe di sportivi, papà pallavolista che ha vestito la
maglia della Nazionale del suo paese, nonno campione nazionale di salto triplo,
sessant’anni fa.
“Stare insieme a lui mi aiuta
tantissimo. Facciamo la stessa cosa, condividiamo la passione per l’atletica e
la facciamo allo stesso livello. Impegno, obiettivi, motivazioni sono le
stesse. Così diventa più facile condividere, capirsi. Ora anche lui è entrato
nell’Esercito, come me. Si allena spesso a Roma e abbiamo più momenti da vivere
insieme”.
AD ALTA QUOTA
L’ingresso in
una società militare è stato un altro step fondamentale, nella storia di questa
crescita continua che ancora non ha scritto, probabilmente, i capitoli più
significativi.
“Sceglierei altre mille volte di
entrare nell’Esercito. Ho trovato una seconda famiglia, e tutta la tranquillità
che mi occorreva. Il colonnello Martelli ci tratta come figli, e per merito del
comandante Zampa la struttura di Roma è stata tempo fa oggetto di un restyling
che ne ha fatto una specie di college. Qui non sei in una caserma, ma in un
centro sportivo di prim’ordine”.
Quello che
serve a un’atleta che ormai ha mostrato il suo valore a tutti. Che ha già in
bacheca tre titoli italiani assoluti, che sono anche ricordi indelebili e
stimoli per inseguire nuovi traguardi.
“Il primo è stato quello di corsa su
strada nel 2013, e come era successo per il primo tricolore di categoria, anche
in questo caso l’ho conquistato sulle strade di casa, a Molfetta. Con il tifo
degli amici di sempre, tanto che non ho realizzato subito quello che avevo
fatto. L’anno dopo sono arrivati i titoli italiani di cross e quello dei 10000
in pista, a Ferrara. Ecco, è stato proprio quest’ultimo a darmi davvero la sensazione
di essere arrivata esattamente dove volevo, e di dover ripartire da quel punto,
che non era un approdo ma un riferimento. Ho provato le stesse emozioni di
quando ho vinto il primo titolo, a Bisceglie. E la stessa voglia di guardare
avanti”.
UN SOGNO CHIAMATO RIO
E fissando
l’orizzonte, Veronica vede chiaro un traguardo davanti a sé. Si chiama Rio de
Janeiro. E’ una rincorsa, in effetti, perché non sono mancati gli imprevisti lungo
la strada. Ma l’importante è non sentirsi soli, mai.
“Non ho mai pensato all’atletica come
un gioco, nemmeno da bambina. Alle Olimpiadi penso da sempre, e ancora più
nitidamente da quando ho corso i 10000 metri in 32.25 e la mezza maratona in
1.10.57, due anni fa. Ovviamente ci sono tanti fattori da considerare, compresa
la fortuna che deve assisterti. Ma sono stata messa nelle migliori condizioni
dalla Federazione, dalla mia società e dalla famiglia. Per me l’atletica vera è
iniziata adesso, con una programmazione a lungo termine che punta alla gara dei
10000 di Rio e poi, naturalmente, alla maratona. Nel 2020 avrò trent’anni,
un’età perfetta per esprimersi su quella distanza. Mi sento addosso una grande
responsabilità, ma per carattere sono una che si esprime meglio quando è
responsabilizzata. Non mi esalto mai, ma nemmeno faccio pesare ad altri le mie
scelte. Prendo sempre il lato positivo delle cose. La passione per l’atletica
leggera fa il resto”.
Merito di
papà e di quell’armadio, vale la pena ricordarlo.
“Mettiamoci anche mio nonno. Quel
mobile, bellissimo, lo costruì lui. Fatto a mano per metterci tutte quelle
medaglie e coppe. Che si vedessero bene. E io le ho viste subito, e ci ho
costruito sopra una passione”.
Runner's World, aprile 2016