Adesso che
Ezio se ne è andato, restando per sempre nei nostri cuori, è tornata alla
mente, tra mille ricordi e fotografie in bianco e nero, anche la storia di
Johnny. L’uomo che entrò in campo al suo posto nell’ultimo momento di massima
gloria del Bologna. All’Olimpico, il giorno dello spareggio-scudetto contro
l’Inter. Il 7 giugno 1964.
Bruno Capra,
detto Johnny, sapeva che quel giorno sarebbe entrato in campo, indossando il
numero di Ezio. Glielo aveva detto tre giorni prima Fulvio Bernardini,
spiegandogli anche i motivi di quella sua scelta furba, da “Dottore”, da
scienziato del pallone. Era una mossa tattica, un lampadina accesa
improvvisamente, un colpo di genio pensato per mettere a soqquadro le certezze
dell’altro mago, Helenio Herrera, ancora carico a mille per la vittoria della
Coppa dei Campioni di pochi giorni prima. Proprio lui, contro il Real Madrid,
aveva tracciato la via.
L’avrebbe
ricordato, nella cronaca della partita, anche Gianni Brera: “Il Bologna, per contro, ha finalmente
impostato la partita per vincere. Nessuna concessione alle fole estetiche già
tanto deplorate (e scontate) l'anno scorso. Praticamente l'Inter ha insegnato
la lezione vincendo al Prater e il Bologna l'ha applicata con energica, direi
spietata, determinazione. L'Inter ha largamente dominato il centrocampo ed ha
scontato in attacco la nullaggine e lo scadimento psicofisico delle sue punte”.
Ad
aspettarle, quelle punte spuntate, quel giorno all’Olimpico c’era anche Johnny.
L’arma segreta di quello spareggio, la genialata del Dottor Pedata. Ma prima di
ricordarvela, proviamo a ricordare come ci era arrivato, Bruno Capra, nel
Bologna. E perché mai tutti si ostinavano a chiamarlo Johnny.
Classe ’37,
proprio come Ezio Pascutti. Un’infanzia passata a Pittsburgh, Pensylvania, dove
papà che faceva il ferroviere era andato per cercare (e trovare) lavoro
partendo da Bolzano, casa sua. Fu lì che i bambini iniziarono a chiamarlo con
quel soprannome: Johnny… Johnny… E lui ci si affezionò e pochi anni dopo se lo
portò dietro in Italia, dove raramente trovava qualcuno che ancora lo chiamasse
Bruno.
Giocava nel
Bolzano, in Serie C, e aveva qualcosa in più, tanto da farsi notare da uno che
di calcio ne capiva parecchio. Il presidente della Spal, Bruno Mazza, lo
“prenotò” offrendo sette milioni alla società d’origine, ma lui non passò le
visite mediche per un problema alle tonsille che gli scombinò i valori degli
esami, e finì per quattro milioni al Bologna. Era il 1956. Un’operazione alle tonsille
e via, iniziava una vita da professionista. Anni dopo, in mezzo anche quel
memorabile spareggio all’Olimpico, Mazza ammise che quell’affare mancato non
l’aveva proprio digerito: “Potevo comprarti con sette milioni e rivenderti a
trenta”.. Tant’è, in quel Bologna che alla fine degli anni Cinquanta, e poi con
l’avvento di Bernardini, iniziò a costruire l’ossatura di una squadra
irripetibile, ci finì anche Johnny. Il figlio del ferroviere, quello che veniva
da Bolzano. Anzi, da Pittsburgh.
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“Ma Renna? Come
la prenderà, Renna?...” Questo fu il primo pensiero di Johnny, quando
Bernardini gli annunciò la sua scelta. Per dire di un gruppo fatto di uomini
veri, uniti nella consapevolezza di aver costruito qualcosa di unico, decisi a
giocarsi tutto in quel giorno afoso dell’estate romana, dopo le calunnie e i
sospetti dei giorni dell’inchiesta-doping, un castello di carte montato contro
il Bologna, principe ragazzino che voleva farsi re a dispetto del protocollo,
delle regole non scritte, della potenza anche economica dei Signori di Milano.
Basta farsi chiamare provinciale, nobile decaduta o chissà che altro. Il
Bologna era quel gruppo: forte, solido, compatto. Faceva terribilmente sul
serio.
Johnny prese
quella maglia col numero 11, guardò Ezio che era lì, a Roma, in quel giorno
irripetibile in cui il destino lo aveva chiamato fuori, rivide il volto
sorridente e negli ultimi tempi sofferente di Renato Dall’Ara, che lo aveva
portato a Bologna e non era lì a godersi l’attimo tanto atteso, portato via da
un’annata che era stata un peso sul suo cuore già affaticato. Pensò ancora alla
faccia triste di Mimmo Renna, ma soprattutto all’idea meravigliosa che si era
messo in testa Fulvio Bernardini. E allora andò in campo, a fare il libero
aggiunto con addosso la maglia dell’ala sinistra.
C’era Franco
Janich a presidiare la sua solita zona di campo, e c’era lui, Johnny, spostato
appena a sinistra, a contenere le folate degli avversari. Che poi quel giorno,
sorpresi dalla mossa e certamente anche più stanchi, furono attacchi flebili,
nulla che una difesa come quella rossoblù non potesse contenere.
Così Johnny
diventò uno di loro. Uno degli “eroi dello scudetto”. Quelli che ancora oggi
sono nella storia, perché quello era un Bologna da sogno e perché dopo, di
scudetti, non ne sarebbero più arrivati.
Ma lui restò
quello che era stato in campo. Uno che lavorava in silenzio. Taciturno, quasi
allergico alle luci della ribalta. Undici presenze in quell’anno speciale, tre
nella stagione successiva, 145 in tutto in dieci anni di Bologna. Poi il
trasferimento a Foggia, e l’addio al calcio giocato nel 1969.
Da allora,
Johnny si è messo ai margini. Come chi ha sempre considerato il calcio una
parentesi della vita, uscendo da tempi in cui non era facile costruirci sopra
il benessere per sé e per chissà quante generazioni a seguire. Ha lavorato in
un altro mondo, ha conosciuto gente nuova e diversa, senza mai farsi grande di
quella sua appartenenza, né del ricordo di quel giorno all’Olimpico. Meno che
mai nei giorni colorati delle celebrazioni, delle feste a cui per carattere non
si è mai sentito a suo agio.
Ma c’era
stato, Johnny Capra, al capezzale dell’onorevole Giacomino, quando il più
ragazzino di quel Bologna tricolore stava per andarsene per sempre. E c’era anche
pochi giorni fa, quando nella cattedrale di San Pietro siamo andati a salutare
ancora una volta Ezio, facendo finta che non fosse l’ultima.
Perché Johnny
era, è e sarà sempre parte di quel sogno.
Un eroe che non voleva essere eroe.
Un numero 11 che quasi si sentiva a disagio, quel 7 giugno 1964, pensando ad Ezio e a Mimmo.
Eppure, fu proprio lui a scombinare le carte.
Un eroe che non voleva essere eroe.
Un numero 11 che quasi si sentiva a disagio, quel 7 giugno 1964, pensando ad Ezio e a Mimmo.
Eppure, fu proprio lui a scombinare le carte.
SHORT STORIES - Racconti di sport e di vitaPrima puntata
Radio Bologna Uno, 27 gennaio 2017
Radio Bologna Uno, 27 gennaio 2017