Mamo Wolde con il suo allenatore Onni Niskanen (Wordpress) |
di
Marco Tarozzi
Dentro le
quattro pareti di una cella, l’unica cosa che può salvarti sono i ricordi. A
quelli si è affidato per anni Mamo, per uscire dalla miseria del presente e
correre fuori, in qualche modo. Correre come quando nessuno riusciva a farlo
come lui. Correre con i pensieri, quando ormai non poteva più farlo con gambe e
cuore.
E allora il
ricordo più intenso, più forte, non poteva che essere quello. Quel 20 ottobre
1968, quella grande corsa da trionfatore alla maratona olimpica di Città del
Messico. Quel giorno era stato un eroe per tutto il suo popolo, raccogliendo
l’eredità di un mito. Chiuso in una cella, Mamo si è affidato per anni a quelle
immagini, ormai sfocate anche nella sua memoria, per combattere gli incubi
quotidiani.
Degaga Wolde,
detto Mamo, era arrivato alle Olimpiadi messicane a trentasei anni, con una
lunga carriera da runner alle spalle. La prima apparizione era stata a
Melbourne, dodici anni prima, quando ancora praticava il mezzofondo veloce, in
pista. Non aveva lasciato segni particolari, negli 800 e nei 1500, meno che mai
nella staffetta 4x400. Ma era stata la prima volta in cui aveva rappresentato
il suo Paese, l’Etiopia, ad una manifestazione così importante, e gli bastò per
sentirsi appagato e continuare a correre, e a crederci. Mamo Wolde aveva scelto
il mestiere che nella sua terra poteva assicurare un minimo di tranquillità
economica per sé e per la sua famiglia. Faceva il militare, era entrato nella
Guardia Imperiale di Haile Selassie già nel 1951, trasferendosi da Ada, suo
luogo natale, nella capitale Addis Abeba, e qualche anno più tardi aveva
partecipato a una lunga missione in Corea per conto dell’Onu. Ancora, quattro
anni dopo Melbourne, mentre a Roma il suo connazionale Abebe Bikila diventava
leggenda vincendo la maratona olimpica a piedi nudi, Mamo aveva appena concluso
una lunga missione nel Congo, sotto la bandiera delle Nazioni Unite.
Intanto,
però, non aveva smesso di allenarsi e fare quello che gli riusciva naturale.
Correre. E aveva capito che per emergere c’era soltanto un modo: allungare le
distanze, in allenamento e soprattutto in gara. Si presentò un altro atleta,
alle Olimpiadi di Tokio. Solido, competitivo. E nella gara dei 10000 metri che
sarebbe passata alla storia per l’incredibile trionfo dell’indiano d’America
Billy Mills, sfiorò il podio finendo al quarto posto, alle spalle dell’inatteso
vincitore americano, di Gammoudi e di Ron Clarke. Intanto, Bikila entrava nella
storia conquistando il secondo oro consecutivo nella maratona olimpica, impresa
mai riuscita ad alcuno nella storia delle Olimpiadi moderne.
Quello che
riempiva d’orgoglio Mamo Wolde era proprio l’amicizia nata con quel campione,
simbolo dello sport etiope, che aveva scelto proprio lui come compagno di
allenamenti. Non esattamente un successore designato, perché i due avevano la
stessa età, nati entrambi nel 1932. Anzi, Mamo era più “anziano” di Abebe, nato
il 12 giugno, quasi due mesi prima dell’amico. Insieme avevano affrontato
chilometri e chilometri di preparazione e anche gare che si erano trasformate
in vere e proprie missioni, come quella che nell’aprile del 1965 li aveva
portati a New York, a correre una mezza maratona celebrativa della seconda
edizione della New York World’s Fair, nella quale avevano consegnato agli
organizzatori una pergamena vergata dall’imperatore Haile Selassie in persona,
che sanciva i buoni rapporti del suo paese con quell’America già al centro del
mondo.
La
successione venne comunque naturale, quattro anni dopo, e fu lo stesso Bikila,
conscio delle sue possibilità ridotte da un problema al ginocchio, a sancirla.
E la parola di un campione assoluto come Abebe non si poteva mettere in dubbio
né discutere, non lo avrebbe mai fatto neppure Mamo. A Città del Messico, Wolde
aveva già vinto l’argento nella finale dei 10000 metri, disputata una settimana
prima della maratona. Doveva essere la gara della definitiva consacrazione di
Ron Clarke che, come sempre gli sarebbe accaduto in competizioni di questo
valore, affondò. Fu invece il primo oro olimpico per il Kenia, nazione indipendente
da soli cinque anni, conquistata da Naftali Temu dopo una volata vincente
proprio ai danni di Mamo Wolde, sei soli decimi di secondo a dividerli dopo
dieci chilometri, con Gammoudi terzo e fuori dai giochi.
“Sai che che questa volta non partirò
per vincere”, è il
discorso che il campione uscente fa all’amico, “anche se avrei voluto giocarmi qualche chance per conquistare il terzo
oro. No, io non posso farcela. Ma tu puoi, e devi. E io ti darò una mano per
riuscirci, nella prima parte della gara”. La benedizione della leggenda.
Così andranno le cose, in gara: Bikila che detta i ritmi ma è costretto a
ritirarsi per spasmi muscolari dopo 17 chilometri, il keniano Temu, vincitore
dei 10000, che resta al comando fino al trentesimo per poi sparire nelle
retrovie (finirà diciannovesimo), Mamo Wolde che prende la testa dopo una prima
parte di gara regolarissima, e vola verso il traguardo in solitudine. Portando
ancora una volta l’Etiopia sul trono della maratona, per la terza Olimpiade
consecutiva. Mamo sarà ancora sul podio quattro anni dopo, quarantenne, a
Monaco. Medaglia di bronzo, alle spalle di Frank Shorter e Karel Lismont.
Secondo atleta nella storia a conquistare una medaglia olimpica in maratona in
due Olimpiadi di fila. Dopo il suo grande maestro, Abebe Bikila.
Tra le quattro
pareti di una cella, il colore dei ricordi aiuta a sopravvivere. Mamo Wolde, lì
dentro, è un uomo con un grande passato ed un presente misero. A capovolgergli
la vita sono state la storia e la cronaca drammatica del suo paese. Nel 1974,
appena due anni dopo il bronzo di Monaco, in Etiopia la rivoluzione
filo-comunista porta alla deposizione di Haile Selassie, e alla conquista del
potere da parte del colonnello Mengistu Haile Mariam, che sa quanto lo sport
possa essere utile alla propria causa. Mamo Wolde è un personaggio amato e
venerato in patria, ed è un militare. Gli viene offerto un posto da dirigente di
un kebele, uno dei distretti in cui è stata riorganizzata Addis Abeba.
L’offerta economica è alettante, e d’altra parte in quel momento storico chi non
è dalla tua parte diventa automaticamente un nemico. Mamo accetta, e senza
saperlo inizia la caduta che caratterizzerà la seconda parte della sua vita,
quella vissuta lontano dai riflettori della gloria sportiva.
L’epopea del
Dergue di Mengistu dura appena quattordici anni, quelli in cui il suo governo
rivoluzionario trova appoggi dal mondo filosovietico. Ma, appunto, il mondo
fuori sta cambiando: la “perestroika” di Gorbaciov lascia Mengistu solo, e
l’Etiopia di fronte all’ennesimo cambiamento politico. Come sempre, è tempo di
chiudere conti in sospeso, e far venire molti nodi al pettine. Anche Mamo Wolde
finisce invischiato in una brutta storia risalente al 1975, l’uccisione di un
ragazzo di appena sedici anni in un night della capitale. “Giustiziato”
barbaramente da un ufficiale che ha voluto che anche Mamo fosse presente
all’esecuzione di un “ribelle” al regime di Menghistu. Di più: Mamo è costretto
a sua volta a sparare sul corpo ormai esanime del ragazzo, e lo fa mancando
volutamente il bersaglio. Più di un testimone di quell’orrore conferma che le
cose sono andate in quel modo, ma non basta. L’ex campione viene arrestato nel
1993, passa nove lunghi anni in galera aspettando un processo che alla fine,
nonostante in tanti lo scagionino, lo condannerà a sei anni di reclusione. Già
scontati, per cui nel 2002 i cancelli del carcere si spalancano, e Mamo rivede
la luce.
Ma è troppo
tardi. Da quell’incubo esce un uomo di quasi settant’anni, piegato dalla vita.
Magro, debilitato, afflitto da una bronchite cronica e da problemi di fegato,
quasi sordo. La comunità dei runners si era mobilitata per lui, durante la sua
prigionia. Billy Mills, che aveva corso e vinto quel 10000 olimpico in cui
Wolde aveva sfiorato il podio, gli aveva fatto recapitare una bandiera olimpica
firmata da campioni americani come Frank Shorter, Ralph Boston, Willie
Davenport, Rafer Johnson, per fargli sapere che non era stato dimenticato. E
Kenny Moore, a cui Mamo aveva soffiato il terzo posto nella maratona di Monaco,
diventato una firma illustre di “Sports Illustrated”, va a trovarlo nel
penitenziario in cui è rinchiuso, per raccogliere il suo straziante e soffocato
grido di dolore. “Là fuori, la gente si
ricorda di te”, gli dice. “Tutto
torna indietro”, gli risponde il vecchio e logorato campione, “ricordami ai miei fratelli olimpici. Queste
sono parole del Signore. Ma io oggi ho solo un desiderio: uscire di qui,
costruire finalmente una casa di pietra, dopo aver vissuto tutta la mia vita in
una casa di fango, e viverci insieme alla mia famiglia”. Otto minuti in
tutto, per rivedere un vecchio amico. “Ma
è bello sapere che fuori la gente ricorda…”
Mamo Wolde
vivrà confortato dall’affetto dei suoi cari, da uomo libero, appena quattro
mesi. Uscito di prigione all’inizio del 2002, morirà a causa di un tumore al
fegato il 26 maggio dello stesso anno. “Datemi
qualche mese per riprendermi, e tornerò a sfidarvi”, aveva assicurato ai
vecchi amici, Kenny Moore compreso. Soltanto un sogno, perché il tempo non fa
sconti. Mai.
RUNNER'S WORLD - "THE STORYTELLER" - novembre 2017