giovedì 7 marzo 2019

DAVE WOTTLE, IL BERRETTO A SORPRESA



di Marco Tarozzi
A guardarlo così, Dave Wottle avrebbe potuto tranquillamente essere catalogato nella categoria “improbabili”. Non che il cronometro gli fosse nemico, anzi. Ma in quella finale olimpica degli 800 metri all’Olympic Stadium di Monaco, nel 1972, non aveva certo l’aspetto dell’uomo da battere. Intanto perché l’uomo da battere era un altro, il sovietico Jevhen Aržanov, campione europeo in carica, “eroe del lavoro socialista”, insomma una leggenda dello sport in patria. Poi, per il suo modo di correre: sempre attendista, per usare un eufemismo; per dirla tutta, abituato a risalire le gare dalla coda del gruppo.
Anche se il segnale, forte e chiaro, era arrivato dai trials americani, dove Dave aveva addirittura eguagliato il primato mondiale correndo in 1’44”3, lui stesso considerava il doppio giro di pista come una prova di passaggio verso quella che sentiva più nelle corde, i 1500 metri. E quel cappellino, poi? Un berrettuccio da golfista che aveva preso l’abitudine a indossare quando portava i capelli più lunghi, da bravo figliolo dei “Seventies”, e alla fine era diventato una specie di portafortuna da cui non era più possibile separarsi. L’effetto visivo, però, era quasi comico: uno spilungone allampanato che temporeggia in fondo al gruppo rischia di non essere preso abbastanza sul serio, soprattutto in una finale olimpica. Soprattutto se a un certo punto esce addirittura dall’inquadratura delle telecamere, mentre i primi sembrano volare verso la gloria. Nessuno, a quel punto, avrebbe immaginato di assistere ad una delle più incredibili e leggendarie gare della storia dell’atletica.
L’IMPROBABILE. David James Wottle, ventiduenne di Canton, Ohio, quei Giochi se li era guadagnati. Scoperta la vocazione da runner alla Lincoln High School, nella sua città, era diventato campione statale del miglio nell’anno da senior, prima di trasferirsi alla Bowling Green State University e diventare campione NCAA dei 1500 proprio nell’anno olimpico, dopo aver colto un secondo posto nel 1970. Avrebbe conquistato anche il titolo nel miglio, nel 1973, correndolo in 3’57”1.
Ai trials aveva conquistato il pass per Monaco sia negli 800 che nei 1500, e su consiglio del coach di BGSU, Mel Brodt, decise di utilizzare le prove sul doppio giro di pista per velocizzare i ritmi. Corridore istintivo, Dave si spendeva nelle gare di avvicinamento con quell’idea fissa: “Mi sentivo pronto per i 1500, non ero un ottocentista. Non mi consideravo all’altezza degli specialisti europei, su quella distanza. Non avevo un’idea precisa di come avrei orientato il futuro prossimo…” A chiarirgli le cose, quel crono ai Trials, che lo proiettò all’improvviso in cima alla lista mondiale.
UN MATRIMONIO CONTRASTATO. C’erano altri motivi per non puntare su una vittoria di Wottle a Monaco, oltre alla presenza di Arzhanov, dei keniani Mike Boit e Robert Ouko, del tedesco dell’est Dieter Fromm, e ancora del britannico Carter e del tedesco occidentale Kemper. Tutta gente che aveva numeri per provarci.
Per prima cosa, l’americano era arrivato all’appuntamento in cattive condizioni fisiche, a causa di una tendinite alle ginocchia che non gli dava tregua e non gli aveva permesso di svolgere nel migliore dei modi il lavoro di avvicinamento ai Giochi Olimpici. Poi, c’era la questione del matrimonio, che aveva fatto storcere il naso al guru in persona. Proprio così, a Bill Bowerman, il leggendario coach che coltivava il talento di Steve Prefontaine, che guidava l’area tecnica della squadra Usa dell’atletica leggera alle Olimpiadi di Monaco, non era andato giù il fatto che Dave avesse deciso di sposare la sua Jan due mesi prima dell’appuntamento olimpico, e di portarla con sé nel suo viaggio in Germania. “Non sono un moralista”, aveva spiegato Bowerman in un’intervista al Register Guard di Eugene, “Sono interessato all’altro sesso come chiunque. Ma la cosa più importante in questo momento, per questi ragazzi, è gareggiare ai Giochi Olimpici”.
Il ragazzo non era certamente un ribelle, anzi. Semmai, la testa gli finiva spesso tra le nuvole. Ma non tornò sui suoi passi, sulla faccenda del matrimonio. A luglio portò Jan sull’altare, e si fece anche una breve luna di miele. Scendendo nelle quotazioni dei tecnici della squadra nazionale. “Dave dovrà ritenersi fortunato se passerà il primo turno degli 800”, chiosò Bowerman. Per la serie: anche i santoni possono sbagliare.
“Ero un ragazzo di ventidue anni”, ha commentato il campione olimpico negli anni, “non avevo la personalità di un Prefontaine, dunque non parlerei di ribellione. Semplicemente, riuscii a dire chiaramente che non avrei lasciato la mia fidanzata ad attendere, e che mi sarei comunque sposato. Ma posso capire anche la posizione di Bowerman, adesso. Probabilmente era certo che quella di rimandare fosse la scelta giusta per me”.
Altra scelta contrastata, quella di portare a Monaco l’allenatore di Bowling Green, Mel Brodt, per aiutarlo nella fase di avvicinamento alle gare. Situazione mal digerita dai capi della delegazione statunitense.
“Coach Brodt mi ha aiutato molto, nei giorni di Monaco. I problemi alle ginocchia mi avevano abbattuto moralmente, lui mi ha tranquillizzato. Se credi nel tuo coach, impari a credere anche in te stesso. Quanto a Jan, mia moglie, è sempre rimasta fuori dal villaggio olimpico, ma ci incontravamo ogni giorno. Mi ha sostenuto, mi ha caricato. Era lei a ricordarmi ogni volta che avrei vinto la mia sfida”.
LA VOLATA. Le parole di Jim McKay, storico commentatore sportivo della ABC, pronunciate durante quegli ultimi duecento metri della finale di Monaco, restano vive nell’immaginario collettivo. “Guardate lo scatto di Dave Wottle… sta arrivando… Dave Wottle tenta di andare a prendere la medaglia d’oro!”.
Nessuno, ormai, se lo sarebbe aspettato. C’era stata subito quella partenza ad handicap, Dave e il suo berretto fuori dalle inquadrature, con almeno dieci metri da recuperare sulla coda del gruppo. In una finale olimpica lunga due giri di pista. “Fui pervaso da un senso di terrore, quando mi resi conto di come si erano messe le cose. Mi trovai subito così indietro e pensai che ero fuori dai giochi…”
All’inizio dell’ultimo giro, l’americano si rese conto che il suo ritmo restava regolare, mentre davanti iniziavano a spegnere la fiamma. “Avevo ripreso il contatto con il gruppo. Ero di nuovo in corsa”. Tutto negli ultimi 200 metri: la risalita, saltando uno a uno gli avversari. Ancora quarto, all’imbocco dell’ultima curva. Il primo a cedere all’allungo imperioso del runner col cappellino fu il keniano Ouko. Nemmeno Dave immaginava di poter andare molto oltre: “A quel punto, pensavo di poter provare a prendermi la medaglia di bronzo. Ma niente mi avrebbe fermato fino al traguardo. Così passai anche Boit, poi io e Arzhanov ci buttammo sul traguardo e lui inciampò e cadde”.
Mai successo. E irripetibile. Tre centesimi a dividere il primatista del mondo e il campione europeo. 1’45”86 per Wottle, 1’45”89 per Arzhanov. Dopo aver alzato le braccia sul traguardo, lo statunitense si rese conto che quella caduta del sovietico, che tanto assomigliava a un tuffo disperato, metteva qualche dubbio sul suo successo: “Solo quando vidi il mio nome apparire sul tabellone luminoso mi resi conto che ero davvero il nuovo campione olimpico”.
L’UOMO DISTRATTO. Era destino che Dave facesse parlare di sé. Dopo le controversie dei giorni di vigilia, dopo quella cavalcata folle e vincente, ne combinò una anche al momento della premiazione. Sul podio, mentre risuonava “The Star-Spangled Banner” accendendo il patriottismo di tutti gli americani in mondovisione, lui se ne stava immerso nei suoi pensieri. Con quel buffo cappellino da golf in testa. Immediatamente, partì ogni sorta di congettura. Erano anni difficili, e quello, si pensò, era certamente un qualche atto di protesta. Ma contro chi o che cosa?
“Solo dopo, quando in conferenza mi chiesero perché l’avevo fatto, mi resi conto che… l’avevo fatto. Insomma, mi ero semplicemente dimenticato di averlo ancora in testa. Iniziai a scusarmi in tutti i modi. Per fortuna, più tardi mi arrivò un telegramma del vicepresidente Spiro Agnew, che anche a nome del presidente Nixon scriveva questa frase: che tu tenga o meno in testa il cappello, sei il tipo di americano di cui ho rispetto”. Caso chiuso.
NELLA STORIA. Non andò altrettanto bene nei 1500 metri, la corsa sulla distanza più amata. Wottle si fermò alle semifinali. “Dopo il successo, peccai di eccesso di autostima. L’umore era completamente cambiato, rispetto ai giorni della vigilia, quando lottavo coi miei malanni. Ero il campione olimpico degli 800 metri, mi sentivo in grado di battere chiunque. Non andò così, e fu un enorme dispiacere perché il mio obiettivo, quando ero arrivato a Monaco, era proprio fare qualcosa di grande nei 1500”.
Tra la vittoria del 2 settembre e la semifinale perduta del 9 settembre, era cambiato ben altro che l’approccio mentale di un campione alla gara. I Giochi avevano perduto la loro innocenza. Il concetto di neutralità olimpica era stato disintegrato dall’assalto dei terroristi di Settembre Nero alla palazzina degli atleti israeliani al villaggio olimpico, che portò in seguito alla morte di undici di loro, oltre che di cinque fedayyn e un poliziotto. Dave Wottle visse il dramma da vicino: la sua stanza, che condivideva con Frank Shorter, che a sua volta avrebbe conquistato l’oro in maratona, era a un centinaio di metri in linea d’aria da quella degli israeliani.
Tre anni dopo il giorno della gloria, la carriera di Dave Wottle era già ai titoli di coda. Colpa, ancora una volta, di quei tendini così fragili. Diventato un dirigente amministrativo scolastico, ha chiuso la carriera lavorativa al Rhodes College di Memphis nel 2015. Insieme alla sua Jan ha cresciuto tre figli e cinque nipoti. Non ha mai negato la sua presenza a chi gli chiedeva di raccontare quei due giri di pista incredibili, destinati a restare nella storia dell’atletica leggera. “In un modo o nell’altro, quella gara riaffiora alla memoria ogni giorno. Una medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi è qualcosa che si ricorda con piacere, perché dovrei negarmi? Chi la dimentica più, quell’emozione?”

Runner's World, marzo 2018

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