di Marco
Tarozzi
A guardarlo
così, Dave Wottle avrebbe potuto
tranquillamente essere catalogato nella categoria “improbabili”. Non che il cronometro gli fosse nemico, anzi. Ma in
quella finale olimpica degli 800 metri all’Olympic Stadium di Monaco, nel 1972,
non aveva certo l’aspetto dell’uomo da battere. Intanto perché l’uomo da
battere era un altro, il sovietico Jevhen Aržanov, campione europeo in carica,
“eroe del lavoro socialista”, insomma una leggenda dello sport in patria. Poi,
per il suo modo di correre: sempre attendista, per usare un eufemismo; per
dirla tutta, abituato a risalire le gare dalla coda del gruppo.
Anche se il
segnale, forte e chiaro, era arrivato dai trials americani, dove Dave aveva
addirittura eguagliato il primato mondiale correndo in 1’44”3, lui stesso
considerava il doppio giro di pista come una prova di passaggio verso quella
che sentiva più nelle corde, i 1500 metri. E quel cappellino, poi? Un
berrettuccio da golfista che aveva preso l’abitudine a indossare quando portava
i capelli più lunghi, da bravo figliolo dei “Seventies”, e alla fine era
diventato una specie di portafortuna da cui non era più possibile separarsi.
L’effetto visivo, però, era quasi comico: uno spilungone allampanato che
temporeggia in fondo al gruppo rischia di non essere preso abbastanza sul
serio, soprattutto in una finale olimpica. Soprattutto se a un certo punto esce
addirittura dall’inquadratura delle telecamere, mentre i primi sembrano volare
verso la gloria. Nessuno, a quel punto, avrebbe immaginato di assistere ad una
delle più incredibili e leggendarie gare della storia dell’atletica.
L’IMPROBABILE. David James Wottle, ventiduenne di
Canton, Ohio, quei Giochi se li era guadagnati. Scoperta la vocazione da runner
alla Lincoln High School, nella sua città, era diventato campione statale del
miglio nell’anno da senior, prima di trasferirsi alla Bowling Green State
University e diventare campione NCAA dei 1500 proprio nell’anno olimpico, dopo
aver colto un secondo posto nel 1970. Avrebbe conquistato anche il titolo nel
miglio, nel 1973, correndolo in 3’57”1.
Ai trials
aveva conquistato il pass per Monaco sia negli 800 che nei 1500, e su consiglio
del coach di BGSU, Mel Brodt, decise di utilizzare le prove sul doppio giro di
pista per velocizzare i ritmi. Corridore istintivo, Dave si spendeva nelle gare
di avvicinamento con quell’idea fissa: “Mi
sentivo pronto per i 1500, non ero un ottocentista. Non mi consideravo
all’altezza degli specialisti europei, su quella distanza. Non avevo un’idea
precisa di come avrei orientato il futuro prossimo…” A chiarirgli le cose,
quel crono ai Trials, che lo proiettò all’improvviso in cima alla lista
mondiale.
UN MATRIMONIO CONTRASTATO. C’erano altri motivi per non puntare
su una vittoria di Wottle a Monaco, oltre alla presenza di Arzhanov, dei
keniani Mike Boit e Robert Ouko, del tedesco dell’est Dieter Fromm, e ancora
del britannico Carter e del tedesco occidentale Kemper. Tutta gente che aveva
numeri per provarci.
Per prima
cosa, l’americano era arrivato all’appuntamento in cattive condizioni fisiche,
a causa di una tendinite alle ginocchia che non gli dava tregua e non gli aveva
permesso di svolgere nel migliore dei modi il lavoro di avvicinamento ai Giochi
Olimpici. Poi, c’era la questione del matrimonio, che aveva fatto storcere il
naso al guru in persona. Proprio così, a Bill Bowerman, il leggendario coach che
coltivava il talento di Steve Prefontaine, che guidava l’area tecnica della
squadra Usa dell’atletica leggera alle Olimpiadi di Monaco, non era andato giù
il fatto che Dave avesse deciso di sposare la sua Jan due mesi prima
dell’appuntamento olimpico, e di portarla con sé nel suo viaggio in Germania. “Non sono un moralista”, aveva spiegato
Bowerman in un’intervista al Register Guard di Eugene, “Sono interessato all’altro sesso come chiunque. Ma la cosa più
importante in questo momento, per questi ragazzi, è gareggiare ai Giochi
Olimpici”.
Il ragazzo
non era certamente un ribelle, anzi. Semmai, la testa gli finiva spesso tra le
nuvole. Ma non tornò sui suoi passi, sulla faccenda del matrimonio. A luglio
portò Jan sull’altare, e si fece anche una breve luna di miele. Scendendo nelle
quotazioni dei tecnici della squadra nazionale. “Dave dovrà ritenersi fortunato se passerà il primo turno degli 800”,
chiosò Bowerman. Per la serie: anche i santoni possono sbagliare.
“Ero un ragazzo di ventidue anni”, ha commentato il campione olimpico
negli anni, “non avevo la personalità di
un Prefontaine, dunque non parlerei di ribellione. Semplicemente, riuscii a
dire chiaramente che non avrei lasciato la mia fidanzata ad attendere, e che mi
sarei comunque sposato. Ma posso capire anche la posizione di Bowerman, adesso.
Probabilmente era certo che quella di rimandare fosse la scelta giusta per me”.
Altra scelta
contrastata, quella di portare a Monaco l’allenatore di Bowling Green, Mel
Brodt, per aiutarlo nella fase di avvicinamento alle gare. Situazione mal
digerita dai capi della delegazione statunitense.
“Coach Brodt mi ha aiutato molto, nei
giorni di Monaco. I problemi alle ginocchia mi avevano abbattuto moralmente,
lui mi ha tranquillizzato. Se credi nel tuo coach, impari a credere anche in te
stesso. Quanto a Jan, mia moglie, è sempre rimasta fuori dal villaggio
olimpico, ma ci incontravamo ogni giorno. Mi ha sostenuto, mi ha caricato. Era lei
a ricordarmi ogni volta che avrei vinto la mia sfida”.
LA VOLATA. Le parole di Jim McKay, storico
commentatore sportivo della ABC, pronunciate durante quegli ultimi duecento
metri della finale di Monaco, restano vive nell’immaginario collettivo. “Guardate lo scatto di Dave Wottle… sta
arrivando… Dave Wottle tenta di andare a prendere la medaglia d’oro!”.
Nessuno,
ormai, se lo sarebbe aspettato. C’era stata subito quella partenza ad handicap,
Dave e il suo berretto fuori dalle inquadrature, con almeno dieci metri da
recuperare sulla coda del gruppo. In una finale olimpica lunga due giri di
pista. “Fui pervaso da un senso di
terrore, quando mi resi conto di come si erano messe le cose. Mi trovai subito
così indietro e pensai che ero fuori dai giochi…”
All’inizio
dell’ultimo giro, l’americano si rese conto che il suo ritmo restava regolare,
mentre davanti iniziavano a spegnere la fiamma. “Avevo ripreso il contatto con il gruppo. Ero di nuovo in corsa”.
Tutto negli ultimi 200 metri: la risalita, saltando uno a uno gli avversari.
Ancora quarto, all’imbocco dell’ultima curva. Il primo a cedere all’allungo
imperioso del runner col cappellino fu il keniano Ouko. Nemmeno Dave immaginava
di poter andare molto oltre: “A quel
punto, pensavo di poter provare a prendermi la medaglia di bronzo. Ma niente mi
avrebbe fermato fino al traguardo. Così passai anche Boit, poi io e Arzhanov ci
buttammo sul traguardo e lui inciampò e cadde”.
Mai successo.
E irripetibile. Tre centesimi a dividere il primatista del mondo e il campione
europeo. 1’45”86 per Wottle, 1’45”89 per Arzhanov. Dopo aver alzato le braccia
sul traguardo, lo statunitense si rese conto che quella caduta del sovietico,
che tanto assomigliava a un tuffo disperato, metteva qualche dubbio sul suo
successo: “Solo quando vidi il mio nome
apparire sul tabellone luminoso mi resi conto che ero davvero il nuovo campione
olimpico”.
L’UOMO DISTRATTO. Era destino che Dave facesse parlare
di sé. Dopo le controversie dei giorni di vigilia, dopo quella cavalcata folle
e vincente, ne combinò una anche al momento della premiazione. Sul podio,
mentre risuonava “The Star-Spangled
Banner” accendendo il patriottismo di tutti gli americani in mondovisione,
lui se ne stava immerso nei suoi pensieri. Con quel buffo cappellino da golf in
testa. Immediatamente, partì ogni sorta di congettura. Erano anni difficili, e
quello, si pensò, era certamente un qualche atto di protesta. Ma contro chi o
che cosa?
“Solo dopo, quando in conferenza mi
chiesero perché l’avevo fatto, mi resi conto che… l’avevo fatto. Insomma, mi
ero semplicemente dimenticato di averlo ancora in testa. Iniziai a scusarmi in
tutti i modi. Per fortuna, più tardi mi arrivò un telegramma del vicepresidente
Spiro Agnew, che anche a nome del presidente Nixon scriveva questa frase: che
tu tenga o meno in testa il cappello, sei il tipo di americano di cui ho
rispetto”. Caso
chiuso.
NELLA STORIA. Non andò altrettanto bene nei 1500
metri, la corsa sulla distanza più amata. Wottle si fermò alle semifinali. “Dopo il successo, peccai di eccesso di
autostima. L’umore era completamente cambiato, rispetto ai giorni della
vigilia, quando lottavo coi miei malanni. Ero il campione olimpico degli 800
metri, mi sentivo in grado di battere chiunque. Non andò così, e fu un enorme
dispiacere perché il mio obiettivo, quando ero arrivato a Monaco, era proprio
fare qualcosa di grande nei 1500”.
Tra la
vittoria del 2 settembre e la semifinale perduta del 9 settembre, era cambiato
ben altro che l’approccio mentale di un campione alla gara. I Giochi avevano
perduto la loro innocenza. Il concetto di neutralità olimpica era stato
disintegrato dall’assalto dei terroristi di Settembre Nero alla palazzina degli
atleti israeliani al villaggio olimpico, che portò in seguito alla morte di undici
di loro, oltre che di cinque fedayyn e un poliziotto. Dave Wottle visse il
dramma da vicino: la sua stanza, che condivideva con Frank Shorter, che a sua
volta avrebbe conquistato l’oro in maratona, era a un centinaio di metri in
linea d’aria da quella degli israeliani.
Tre anni dopo
il giorno della gloria, la carriera di Dave Wottle era già ai titoli di coda.
Colpa, ancora una volta, di quei tendini così fragili. Diventato un dirigente
amministrativo scolastico, ha chiuso la carriera lavorativa al Rhodes College
di Memphis nel 2015. Insieme alla sua Jan ha cresciuto tre figli e cinque
nipoti. Non ha mai negato la sua presenza a chi gli chiedeva di raccontare quei
due giri di pista incredibili, destinati a restare nella storia dell’atletica
leggera. “In un modo o nell’altro, quella
gara riaffiora alla memoria ogni giorno. Una medaglia d’oro vinta alle
Olimpiadi è qualcosa che si ricorda con piacere, perché dovrei negarmi? Chi la
dimentica più, quell’emozione?”
Runner's World, marzo 2018
Runner's World, marzo 2018
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