Appassionato tifoso del Bologna, che aveva visto giocare negli anni più gloriosi, e giocatore talentuoso: per Pasolini il gioco del pallone era un fenomeno sociale. A Biagi disse: “Avrei voluto essere un calciatore”
testo di Marco Tarozzi
“I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di
Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra,
allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”,
ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.
La Bologna di Pier Paolo
Pasolini passa da lì, anzi si può dire che sia nata lì. Tra il liceo Galvani e
i Prati di Caprara, il campo dove nel 1909 aveva preso il via la leggenda
rossoblù, il luogo dove “quei matti che corrono dietro una palla” avevano iniziato a darsi appuntamento per dedicare un po’ del loro
tempo e della loro gioventù al “football”. Lì passava le sue ore anche lo
studente liceale Pasolini, reimmergendosi nello spirito di una città che fino a
quel momento era stata solo un luogo di nascita. Perché in quel periodo la casa
natale in via Borgonuovo era un ricordo sbiadito, quasi rimosso per via dei
trasferimenti del padre, capitano di fanteria, tra Parma, il Veneto e il
Friuli. Anche se il Bologna, inteso come amore sportivo, era sempre presente, persino
nei colori rosso e blu con cui l’adolescente Pier Paolo aveva tappezzato la
camera a Casarsa, paese natale di mamma Susanna.
SOGNANDO BIAVATI. C’erano quegli
interminabili pomeriggi passati correndo dietro al pallone, e c’era anche lo
spettacolo delle partite vere, quelle viste dagli spalti dello stadio. “Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Quello era il
Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni
e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho
mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che
domeniche, al Comunale…”
Amedeo Biavati fu il primo mito vero. Un campione del mondo che ispirò
quel ragazzo magro ma già potente, un fascio di nervi, nelle sue sgroppate
sulla fascia. Intorno c’era il Bologna di prima della
guerra, quello dell’ultimo Felsner e dell’ultimo Schiavio, di Reguzzoni, di
Sansone e Fedullo, del quinto e sesto scudetto. E Pier Paolo, sull’erba dei
Prati, provava e riprovava il “doppio passo”, finché aveva fiato ed energia in
corpo.
BULGARO, FACCIA DA ATTORE. Quando
Pasolini giocava a pallone, lasciava trasparire un entusiasmo quasi infantile.
Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o
Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si
chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e iniziava ad esibirsi per beneficenza.
Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi,
Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico,
Maurizio Merli.
Una passione di cui sono testimonianza proprio le parole di Citti, suo storico
collaboratore così come di Bertolucci e Scola. “Una volta incontrò Giacomo Bulgarelli.
Restò incantato: pareva avesse visto Gesù Cristo”. A Giacomino, leggenda rossoblù, il Pasolini regista arrivò anche a
proporre un ruolo importante ne “I racconti di Canterbury”. Sosteneva che oltre ad
essere un prosatore del calcio, a differenza di Riva che ne rappresentava la
poesia, il Bulgaro avesse anche la faccia giusta per stare davanti alla
macchina da presa. Ma forse i tempi non erano maturi perché un eroe del pallone
si mescolasse a quelli del cinema, anche se il precedente di Raf Vallone, che
prima di diventare attore aveva giocato in Serie A con i colori del Torino,
avrebbe potuto invogliare quel ragazzo destinato a diventare una bandiera
rossoblù. Che comunque ringraziò, declinando l’invito.
AMORE E PALLONE. Più tardi, Pasolini riuscì
comunque a coinvolgere i suoi idoli, in modo totalmente diverso. Nel 1963,
mentre lavorava a “Comizi d’amore”, documentario pensato con l’intento di conoscere
le opinioni degli italiani sulla sessualità, l'amore e il buon costume, e per
capire il cambiamento della morale dei suoi connazionali, riuscì a sondare il
mondo del pallone e lo fece proprio attraverso i giocatori del Bologna.
Irrompendo all’allenamento dei rossoblù per intervistarli e
provocando un imbarazzo diffuso, perché quasi sessant’anni fa parare di certi
argomenti e in certi contesti, e farlo senza filtri o remore, era piuttosto
complicato. Date un’occhiata a quello spezzone: troverete Pavinato che sembra
il più deciso, Pascutti che dice pane al pane e vino al vino, Bulgarelli che
attacca un sermoncino da studente modello, Furlanis che divaga, Negri che evita
l’argomento (come del resto faceva con ogni altro argomento). Una testimonianza
da un mondo ancora chiuso, pieno di cose non dette.
TIFOSO VERO. C’è dunque il Pasolini tifoso,
accanto al Pasolini giocatore. Entrambi appassionati. Dopo gli anni giovanili,
il primo continuò a frequentare gli stadi, e quando possibile anche le partite
del Bologna: a Roma si presentò spesso all’Olimpico per vedere i rossoblù
impegnati contro la Roma o la Lazio. Gli piaceva andarci in compagnia, e il
sodale preferito era Paolo Volponi, che condivideva con lui la fede rossoblù
pur essendo nato ad Urbino. E il Comunale, oggi intitolato a Renato Dall’Ara,
era sempre nei suoi pensieri, quando non addirittura nelle sue rime: “…E so come sia terso in questo ottobre /
il colle di San Luca sopra il mare / di teste che copre il cerchio dello
stadio…”
SFIDA TRA REGISTI. Il secondo, quello che
andava personalmente in campo, restò agguerrito anche in età matura. Sempre
all’ala, sempre a spendersi generosamente, sempre in cerca della vittoria
perché perdere non gli piaceva affatto. Per dire, uscì dal campo
arrabbiatissimo in occasione dell’improvvisato derby tra le troupes di “Novecento”
e di “Salò o le 120 giornate di
Sodoma”, quando lui e Bertolucci interruppero i lavori sui set che distavano
pochi chilometri l’uno dall’altro per sfidarsi in una partita accesissima. Si
arrabbiò, Pasolini, perché quell’incontro come al solito lo aveva preso
dannatamente sul serio, mettendo a disposizione anche la muta di maglie
(rossoblù, ci mancherebbe) per la squadra, e una volta in campo aveva subito
capito che i compagni avevano preso l’impegno sottogamba. Per la felicità di
Bertolucci, che nel giorno del suo compleanno, seppure da semplice spettatore,
vide il team di “Novecento” vincere 5-2.
FENOMENO SOCIALE. Pier Paolo Pasolini amava
il calcio perché lo considerava fondamentale all’interno della nostra società. “Il calcio è un fenomeno sociale, che lui spiega come “un sistema
di segni, un linguaggio. Chi non conosce il codice
del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il
senso del suo discorso (un insieme di passaggi)”.
Lui lo conosceva davvero, quel significato. Al punto da non avere dubbi nemmeno
sulla risposta da dare ad Enzo Biagi che gli chiese cosa avrebbe voluto
diventare, senza cinema né scrittura: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno
dei grandi piaceri”.
LA SOLITUDINE DEL POETA. Pier Paolo Pasolini a Roma aveva costruito la sua grandezza e coltivato la sua profonda solitudine. Scrivendo opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; creando un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e Vangeli. E c’è tragicamente il calcio anche a segnare la sua fine: su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, morì di una morte violenta e mai davvero chiarita una notte d’autunno del 1975. In quell’agguato non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che non aveva dimenticato i luoghi di Bologna: il Galvani, i Prati di Caprara, il Comunale, posti che aveva amato e nei quali aveva bruciato passioni ed emozioni.
("Nelle Valli Bolognesi", n. 2/2022)