mercoledì 13 ottobre 2010

La nuova sfida di Antibo


di Marco Tarozzi

“Sono in tanti, purtroppo, ad aver dimenticato Antibo”. Parla in terza persona, Totò, e non lo fa per immodestia. Se c'è uno che non fa pesare quello che è stato, un pezzo di storia della nostra atletica, è lui. Salvatore Antibo da Altofonte, il campione che non temeva i talenti d'Africa, che li sfidava e li affrontava guardandoli negli occhi, che sapeva parlare la loro stessa lingua. Gli serve, quell'incipit in terza persona: dà forza e valore a un discorso di nobile rabbia. Si è sentito messo da parte, un po' alla volta, dopo quella finale maledetta. 10000 metri, Mondiali di Tokio: era primo e finì ultimo, senza capire. E quando capì, parlò senza remore. Epilessia.
“Credo di essere l'unico atleta di vertice ad aver ammesso pubblicamente la sua malattia. Non è stato un passo facile, perché intorno all'epilessia c'è una tradizione secolare di disinformazione, credenze, addirittura superstizioni. Nel mio caso, non potevo più offrire l'Antibo che tutti conoscevano e volevano vedere. Mi sono sforzato di riuscirci, e ancora un anno dopo Tokio, sotto farmaci, ho chiuso al quarto posto un'Olimpiade, a Barcellona. Non fu impresa da poco, ma capii che non poteva durare”.
L'altro Totò è quello che subito dopo quella sera da dimenticare ha continuato a combattere, su un fronte completamente diverso. “Anche contro le insinuazioni. Dissero che sapevo e nascondevo. Invece la vera storia della mia malattia è semplice: a tre anni fui investito da un'auto, restai otto giorni in coma e quando mi ripresi i dottori dissero che in età adulta avrei potuto essere soggetto a problemi del genere. Ma non successe, tanto che fui in grado di gestire una carriera da atleta di alto livello. Poi, nell'89, ebbi un altro incidente d'auto. Per fortuna lieve, ma battei la testa e questo evidentemente risvegliò il problema. La verità è che quella di Tokio fu la prima manifestazione importante del mio male, e io stesso non la interpretai immediatamente per quello che era”.
L'altro Totò è quello che ancora oggi combatte, su nuovi fronti, con la carica di quando scendeva in pista. Che si fa testimonial della Lice, la Lega Italiana contro l'Epilessia, alle manifestazioni di massa. “Perché è ora che la paura di parlarne venga sconfitta. Ci sono genitori che tengono nascosti i loro figli, li chiudono in casa, non li mandano a giocare con gli altri ragazzi. Che si vergognano di questa situazione. L'epilessia è una malattia, si può curare e tenere sotto controllo. E i bambini hanno diritto e bisogno di stare all'aria aperta, di convivere, di fare movimento. Non devono sentirsi diversi. Per questo io scendo in campo, là dove mi chiamano”.
Lo sa bene che se c'è una cosa di cui ha bisogno un epilettico è di non essere lasciato solo. Anche nella vita di tutti i giorni. “Certo, mi fa male pensare che mio figlio più piccolo, che ha sei anni, veda suo padre durante una crisi. Ma quando succede, è lui il primo ad aiutarmi. E questo ci lega ancor più profondamente. Anche nella corsa non posso più fare il solitario, come mi succedeva spesso durante gli allenamenti quando ero “quell'Antibo”. Devo sempre avere qualcuno vicino. Ma non ho rinunciato, ci mancherebbe. Non mi sono mai arreso agli africani, dovrei farlo di fronte a un male così vigliacco? Non se ne parla: esco ancora quattro volte a settimana, macino una decina di chilometri a seduta. E insieme a me c'è sempre un altro Totò, un amico di Altofonte che di cognome fa Di Matteo e ha sessantun'anni. Correre con me gli fa piacere, e mi aiuta immensamente. Anche dal punto di vista psicologico”.
Il passato, quello pieno di luci, è ancora vivo nella memoria. Gli ori europei di 5000 e 10000 a Spalato, l'argento olimpico di Seul sui 10000. E sì, anche quel quarto posto di Barcellona che testimonia la sua forza di volontà, il suo carattere da combattente. Ma non vive di ricordi, Totò. Anzi, pensa con amarezza al fatto che i suoi primati in pista sono tra i più longevi dell'atletica italiana. “Quello dei 5000 lo stabilii al Golden Gala nel '90, l'anno in cui traslocò a Bologna. Quello dei 10000 addirittura un anno prima, a Helsinki. Non ne faccio un motivo d'orgoglio: vorrei che ci fosse un italiano in grado di batterli. Ma la situazione è quella che è. Delicata, difficile. I motivi? Non voglio sembrare polemico, ma penso che l'approccio alle società militari sia sbagliato. Sono importanti, danno ai giovani una possibilità di futuro. Anch'io scelsi le Fiamme Oro, ai miei tempi. Ci restai due anni, poi decisi che volevo diventare campione a casa mia e tornai al Cus Palermo. Non dico che tutti dovrebbero ragionare così, ma oggi per molti atleti l'approdo a un gruppo militare è diventato un punto d'arrivo, mentre dovrebbe essere un punto di partenza”.

Runner's World, ottobre 2010

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