di Marco Tarozzi
Quattro anni dopo. Tutto è cambiato, eppure tutto è come
prima. E’ nuovo il calcio, che evolve a ritmi che un tempo erano impensabili,
non sempre nella direzione migliore. E’ rimasto
l’affetto, uguale a sé stesso come in tutte le storie d’amore degne di questo
nome. Quattro anni dopo Ezio Pascutti
si è affacciato nuovamente dagli spalti del Dall’Ara, ed ha sentito la curva
intonare il suo nome. Molti di quei ragazzi non l’hanno nemmeno visto giocare,
ma le leggende non hanno bisogno di prove inconfutabili. Basta la parola dei
padri, bastano i gesti tramandati. E lui, friulano un tempi schivo e spigoloso
che da Bologna ha scelto di non separarsi più, è esattamente questo. Leggenda.
Come Giacomino, come quel suo Bologna che incantava. L’anno prossimo sarà mezzo
secolo esatto dall’ultimo scudetto, ma il nome di Pascutti è ancora una favola
bella da raccontare, rievoca sogni di gloria e accende la passione. E i cori.
“E’
stata un’emozione, c’è poco da girarci intorno. E’ bello sentire che questa
città e chi ama il calcio non ti ha dimenticato. Significa che ho fatto bene a
restare qui. Certo, sono stato a un passo dal finire altrove. Potevo andare
all’Inter in un giro di scambi che avrebbe dovuto portare qui Gigi Riva. L’ho
saputo dopo, ovviamente. Allora non è che uno potesse ribellarsi più di tanto a
un trasferimento, non era come adesso. Ma è andata bene. Da qui non mi sono più
mosso, nemmeno dopo aver chiuso col calcio giocato. Quando mi è rimasta la casa
di famiglia in Friuli ho deciso di venderla. Le radici restano, ma vivo qui da
quasi sessant’anni e Bologna è la mia vita. Ci ho conosciuto mia moglie:
passava tutti i giorni all’uscita da scuola a forza di vederla ho trovato il coraggio
di farmi avanti ed è finita che ci siamo sposati. Lo scudetto? Beh, quello è
servito ad ancorarmi ancora di più a questa città”.
Bandiera vera, come non ne esistono più. Totti a Roma,
Del Piero a Torino finché ha retto. I tempi cambiano anche in questo. Al
Dall’Ara, Ezio ha abbracciato il papà di Alino Diamanti, uno che bandiera
potrebbe diventare, se non si farà rapire dalle sirene del calcio d’alta quota.
“Non
posso biasimarlo. Le cose sono cambiate, rispetto ai miei tempi. Non solo: è
cambiato anche il Bologna. Io ad andarmene non ci pensavo proprio, ma è vero
che giocavo in una squadra di vertice. Oggi è dura dire di no, se ti cerca una
squadra come la Juve. E se lui dovesse fare una scelta del genere, bisognerebbe
essere contenti per quello che ci ha dato e non considerarlo un traditore”.
In quel Bologna da scudetto lui arrivò nella stagione
1954-55, ad appena diciassette anni. Per viverci un’intera carriera, fino al
1969: 294 partite e 130 reti, senza nemmeno calciare un rigore. E tra poco
racconteremo il perché. Un ragazzo chiuso, grintoso, quello che arrivò a
Bologna. Alle spalle un’infanzia dura, e due fratelli che stravedevano per lui,
portati via troppo in fretta dal destino: Enea, il maggiore, costretto a
emigrare in Canada per lavorare e poi rapito da un male incurabile; Paride
annientato dalla guerra e dalla prigionia in Germania. Ezio, il ragazzino, mise
in fretta gli aculei contro un mondo che cercava di dargli schiaffi. Cresciuto
col pallone nella testa, capì subito che Bologna era la grande occasione e ci
si buttò con coraggio.
“Ascoltai
i consigli di Enea. Mi diceva: calcia di sinistro, impara perché dopo
Carapellese in Italia un’ala sinistra vera non si è più vista. Strada facendo
ho incontrato il mio mentore, Gipo Viani. Fu lui a volermi a Bologna. Mi ero
fatto notare nel Pozzuolo e nel Torviscosa, ero veloce e segnavo a raffica.
Arrivai qui e non dimenticai le buone abitudini. Anche se all’inizio non fu
semplice, perché la mia rapidità mi portava anche a sbagliare occasioni ottime,
e non fui subito capito”.
Ci mise poco, la piazza, a innamorarsi. Ed Ezio fece in
fretta ad entrare nella mentalità dei bolognesi, pur mantenendo qualcosa del
suo rigore e del suo orgoglio di “furlàn”. Gli restò quel carattere mai docile,
per il quale ha anche pagato più del dovuto, in certe occasioni. Come il 13
ottobre del ’63, giorno in cui una semplice espulsione diventò un caso
nazionale, e Bologna seppe stendere un’ala protettrice sopra il suo bomber.
“Quell’episodio
mi ha perseguitato. Urss-Italia a Mosca. Finì 2-0 per loro, ma in quel momento
avevano appena segnato il primo gol. Dubinski, il difensore che mi marcava, mi
arrivò da dietro mentre ero lanciato a rete, con un falllo cattivissimo. Io mi
ero appena ripreso da uno dei miei infortunii al ginocchio. Non ci vidi più e
lo presi per il collo. Roba leggera, lui fece parecchia scena. Ma diventò un
caso politico: era la prima sfida in trasferta coi russi, c’era una decina di
parlamentari in tribuna, la stampa mi mise in croce. Non ci furono squalifiche
dall’Uefa, ma da allora per anni in ogni stadio italiano venivo accolto a
fischi, quasi come un traditore della patria. Dovevo mettermi i tappi nelle
orecchie per non sentire. Ma i fischi non mi avrebbero mai piegato: sono stati
gli infortunii a farmi dire basta, nel 1969”.
Di quei 130 gol ricorda il più bello, che per lui non è
quello della famosa foto di Parenti in cui anticipa Tarcisio Burgnich in tuffo.
“Quello
è un bel ricordo, perché Tarcisio è stato l’avversario più duro. Un compaesano,
dal mio paese natale al suo ci sono meno di venti chilometri. In campo
parlavamo in dialetto e litigavamo in continuazione. Però quando venne a
Bologna da tecnico mi chiamò a fare l’osservatore. Il compagno più importante,
invece, è stato Giacomo. Se ho segnato tutti quei gol, il merito è anche suo.
Il più bello, però, lo feci contro il Genoa, su cross a rientrare dal fondo di
Maraschi. Una meraviglia, solo che quel giorno non c’era nessuno a immortalare
il momento. La storia dei rigori mai tirati? Ne sbagliai uno in Coppa Italia,
contro l’Udinese: mi feci la nomea e non ne tirai più. Quando ti “battezzano” è
brutto, è come la storia che sarei stato un attaccabrighe in campo: sono molte
tredici espulsioni in quindici anni?”
E’ tornato “Pascòt” come lo chiamava da ragazzino Gianni Morandi, oggi presidente
onorario rossoblù, che un giorno andò fino alla sede del Carlino per chiedere a
Italo Cucci di aiutarlo a conoscere
il suo eroe (e con lui c’era un meno conosciuto Lucio Dalla, che invece stravedeva per l’Onorevole Giacomino). E’
tornato e si è fatto un’idea del Bologna di oggi.
“Stagione
positiva, e la salvezza anticipata è merito di Pioli, che ha saputo gestire un
gruppo numeroso e superare i momenti difficili all’inizio. Spero che la società
riesca a trattenere Gilardino. E’ un attaccante d’area come pochi in Italia, e
questa stagione rossoblù per me lo ha rigenerato. Non è il primo a cui
succede”.
Magari, chissà, anche il Gila non si allontanerà più da
Bologna. Come hanno fatto in tanti. Come ha fatto Ezio, che di Bologna è
diventato un pezzo di storia.
Bologna Rossoblù, giugno 2013
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