di Marco
Tarozzi
Buon
compleanno, Dan. Ed è un compleanno davvero speciale, quello di Daniel Lowell Peterson, per amici e
gente di basket semplicemente Dan, americano d’Italia che festeggia oggi le ottanta
primavere, e domani andrà a trasformarle in vivacità e passione su una delle
due panchine dell’All Star Club Beko, affiancando Max Menetti. Il giovane coach
e l’altro, quello ancora giovane dentro, che ha esercitato il mestiere che più
amava in modo speciale, divulgando il verbo e facendo proseliti come pochi
altri hanno saputo fare.
La Virtus si
unisce al coro dei festeggiamenti, perché gli anni bolognesi di Dan sono stati
per tanti versi importanti, e lui lo ha sempre ricordato. Sono stati il suo approdo,
la sua conoscenza dell’Italia, di una terra che è diventata la sua terra. Sono
stati, anche, la rinascita di una Virtus che da vent’anni faticava a tornare
tra le grandi, progettata da quella coppia d’assi, da quelle due P così
fondamentali nella storia bianconera, Porelli e Peterson.
Oggi che
tutti raccontano il piccolo grande uomo dell’Illinois, che tutto di lui è stato
e sarà raccontato, noi proviamo a festeggiarlo mettendo in fila in un grande
alfabeto il suo passaggio nel basket italiano. Ne escono storie, uomini che
hanno condiviso con lui una parte della strada, e le firme di quelli che lo
hanno raccontato in questi quarantatré anni.
Buon
compleanno, coach.
A come AVVERSARI
Il più agguerrito se
lo ritroverà di fronte domani a Trento, in una edizione dell’All Star Game Beko
che riaccenderà il canale dei ricordi. Valerio Bianchini, il Vate, è stato,
parola di Peterson, l’avversario più ostico. Per come gli opponeva le sue
squadre in campo, ma anche per quello che costruiva intorno. “Valerio ha sempre avuto una grande
capacità: se una partita era importante, lui la faceva diventare epocale. Con
le parole, la faceva diventare un evento, la partita del secolo”.
B come BASKET
Scelta non molto originale, d’accordo. Ma di questo ha vissuto Dan, da sempre e
per sempre. Di questo vive ancora, con uno spirito che anche i giovani
dovrebbero invidiargli. Dal basket ha avuto tanto, al basket tanto ha dato, da
tecnico ma anche da commentatore, insegnante, in una parola divulgatore.
C come CILE
Dopo quattro anni da
capoallenatore alla Università del Delaware, la prima esperienza all’estero con
la Nazionale cilena. Una pallacanestro tutta da costruire. Parole datate 1973, poco dopo
l’approdo a Bologna: “Mi arrivò un'offerta per andare là con il Corpo dei Pacifisti.
Poche lire e pagate dagli Stati Uniti. Dal Cile nemmeno un escudo... Ho
ricominciato da zero. Qualche risultato? Ai giochi Sudamericani di quest'anno
abbiamo ottenuto il miglior piazzamento degli ultimi vent'anni… Insomma mi sono
trovato benissimo, ho raccolto buoni successi, potrei tornare in Cile in
qualunque momento e mi accoglierebbero a braccia aperte. Anzi, l'estate
prossima, situazione politica permettendo, ci tornerò due mesi, a fare un po'
di preparazione fisica a quella gente...”.
Già, la situazione politica. Peterson arriva a Bologna poco prima del golpe
che metterà fine tragicamente alla guida di Salvador Allende. E questo fatto,
all’epoca, fa sì che circolino voci su una sua… collaborazione diretta con la
Cia. “Mi fa ancora ridere, quella storia. C’erano giornalisti che non si
capacitavano che uno statunitense fosse andato in Cile soltanto per allenare…”.
Nel 2008, finalmente, si è tolto lo sfizio: per un minuto lo ha fatto
davvero, il truce agente della Cia, in un episodio della serie sull’ispettore
Coliandro.
D come DRISCOLL
Nella sua Virtus, uno
degli uomini che hanno lasciato il segno. Probabilmente il più significativo,
se il coach lo ha inserito nel suo quintetto ideale insieme a quattro
“milanesi”, Mike D’Antoni, Roberto Premier, Bob McAdoo e Dino Meneghin, e a un
sesto uomo, Gallinari, che ha giocato in entrambe le “squadre della vita” di
Peterson, prima all’Olimpia e poi alla Virtus. Con Driscoll scattò un feeling
speciale, se è vero che Edward Cuthbert, detto Terry, fu il faro della Virtus
di Dan per tre stagioni, e con lui vinse lo scudetto, aggiungendone poi due a
sua volta da tecnico, proprio sedendosi sulla panchina bianconera quando
Peterson prese la strada di Milano.
E come EVANSTON
Il posto delle fragole. La città natale, a cui Dan
è sempre rimasto legato. “Sono nato a Evanston, Illinois, il 9 gennaio 1936”,
raccontava in una delle prime interviste appena arrivato a Bologna, a
Gianfranco Civolani. “Evanston confina con Chicago. Ma occhio alla
differenza: Chicago è la citta più brutta del mondo, Evanston la più bella”.
F come FULTZ
A Linate, il nuovo
coach della Virtus arriva dopo un viaggio estenuante dal Cile. “Prendo il volo
della Varig che fa Santiago-Rio-Dakar-Parigi, per cambiare e arrivare a Linate.
Essendo, come tanti uomini, un bambino dentro, quando siamo atterrati a Dakar,
sono sceso per un minuto, ho messo i piedi sulla terra e ho detto:
"Africa!". Ad attenderlo per la
sua prima avventura italiana ci sono Dino Costa, Achille Canna e John Fultz,
cliente dell’avvocato newyorkese Kaner, che ha fatto conoscere Peterson a
Porelli. Partono da questa conoscenza comune, i due americani che faranno
rinascere la V nera. “Kociss” il trascinatore, Dan che subito cambia metodi e regole.
Eppure quel coach sconosciuto, pian piano, riesce a cambiare l’idolo delle
folle, trasformandolo da primattore in vincente, da cannoniere a cui arrivano
tutti i palloni roventi a uomo-squadra. La Coppa Italia del ’74, che riconsegna
alla Virtus un posto in Europa, è un capolavoro di entrambi.
Proprio al termine di quella finale, Dan parlò chiaro a John “Gli dissi: John, certamente hai sentito
voci che prenderemo Tom McMillen come straniero il prossimo anno. E’ vero,
siamo in trattative. Ti dico solo questo: se viene lui, lo rpendo. Ma se lui
dice no, voglio che tu rimanga. Hai fatto un progresso straordinario
quest’anno, ora sei un campione… Poi, è venuto Tom McMillen. Ma non ho mai
smesso di ringraziare John per ciò che ha fatto per la Virtus e per il sottoscritto”.
G come GIGI
Porelli, certo. Vedi
alla voce. Ma anche l’altro Gigi, Serafini, il ragazzone di Casinalbo che con i
compagni vide arrivare a palazzo questo piccolo uomo che davvero sembrava
piombato sulla terra dopo un atterraggio di fortuna. E, parola di Gianfranco
Civolani, sorrise soddisfatto quando gli dissero che era un convinto assertore
del doppio allenamento. Poi, però, gli spiegarono che non si trattava di due
volte a settimana, ma di due al giorno. E Gigi pensò che forse quel coach non
sarbbe durato a lungo, a Bologna. Ma ci mise poco, a ricredersi. Certo, lo
faceva faticare il doppio. “Però è bravo
davvero”, assicurava confidenzialmente agli amici. E non solo a loro.
H come HALL OF FAME
In quella della Fip,
la “Italia Basket Hall of Fame”, Daniel Lowell Peterson è entrato ufficialmente
nel novembre del 2012. La Federazione ha messo nero su bianco tutta
l’importanza che questo piccolo grande uomo d’America ha avuto per la
pallacanestro del nostro Paese.
I come ITALIA
Perché gira e rigira,
da quasi quarantatré anni questa è diventata la casa di Dan. Arrivò che di anni
ne aveva trentasette, e ci è rimasto per la vita. Lui ci sta divinamente,
mantenendo delle origini quella parlata “allargata” e confidenziale, e certe
passioni, come gli onions ring sulla
tavola. “Insieme al mio Paese, questo è
il migliore in cui vivere. L’Italia ha tre fondamentali qualità: storia,
cultura e una natura fantastica. Oltre alla buona tavola, naturalmente”.
L come LAURA
Questa volta l’ha
fatta un po’ arrabbiare, la sua Laura, accettando di andare a festeggiare i
suoi primi ottant’anni sulla panchina del Cavit All Star Team, all’All Star
Game di Trento. Ma ha già trovato il modo di farsi perdonare. Risposandola. «Lo
faremo il 7 dicembre del 2017, perché dobbiamo mettere un po’ di cose a posto.
La prima volta fu nel ’97, il 7 dicembre a Miami, a casa di Bob McAdoo».
Trent’anni di amore, quasi venti di matrimonio e… il secondo in vista. Bel
programma, mister Peterson.
M come MC MILLEN
Un altro di quelli
che rendono piacevole il mestiere di allenatore. Peterson riuscì a portarlo
alla Virtus nella stagione 1974-75.
L’opera di convincimento la fece il suo assistente John McMillen, che di Tom
era cugino. Il campione studiava a Oxford e andava e veniva ogni fine
settimana, vero pendolare dei canestri. Si sono rivisti qualche mese fa, a una
rimpatriata con quella Virtus, naturalmente da Cesari, il posto del cuore. “Mi ha detto” ha confessato il coach in
una lunga intervista ad Alessandro Gallo,
“ che se quell’anno non si fosse stancato per i continui viaggi tra Bologna e
Oxford avrebbe fatto meglio di quei 31 punti e 17 rimbalzi a partita. Quando
l’ha spiegato davanti a Serafini, Bonamico, Albonico e Tommasini, tutti suoi ex
compagni, sono impazziti…”
N come NBA
L’America in salotto,
la prima, quella che resta nella memoria di ognuno di noi, ce l’ha portata lui.
Con quella capacità mediatica unica, che gli permise di passare dalla panchina,
abbandonata a soli 51 anni (“Un grave
errore”, ricorda oggi) agli studi televisivi, per iniziare un’opera di
proselitismo che ha fatto bene al movimento. Le primissime telecronache di quel
mondo ancora magico e lontano erano lunghe e affascinanti spiegazioni, prima
ancora che pura cronaca. Con la chiusa finale, quando il campo aveva ormai
decretato i vincitori di una sfida: “mamma,
butta la pasta!”. Fine delle trasmissioni.
O come OLIMPIA
E poi arrivò Milano.
Inutile essere gelosi, un legame anche più lungo di quello con Bologna, e certamente
più ricco di successi anche internazionali. Se la Virtus è stata l’inizio della
grande avventura, L’Olimpia è stata la consacrazione. “Milano è come New York: bisogna rispettare la chiamata
della grande città”, spiegò il coach a Gigi Speroni, sul Radiocorriere Tv, un giorno di
trentacinque anni fa, “ …perché poi, magari, non arriva più. Poi avevo
voglia di prendere in mano una squadra nuova… Forse non riesco a spiegare bene
il perché di questo… Vede: sono uno che non cambia mai giocatori e dopo cinque
anni a Bologna li avevo ancora quasi tutti con me. Ogni tanto mi veniva la
domanda: cosa posso dire ancora loro? Questi hanno già sentito tutto… Alla
fine, parlavo sempre meno con la squadra…”
P come PORELLI
Storia di un rapporto
che, visto nei primi giorni, non avrebbe dovuto nemmeno decollare. L’americano
apparentemente così stravagante e curioso e l’Avvocato tutto d’un pezzo, poche
parole e idee sempre precise. Che tra l’altro, all’inizio, aveva tra le mani Rollie
Massimino, che invece andò a lavorare all’Università di Villanova. Dunque, un
americano era arrivato. Ma sconosciuto. Fecero in fretta a capirsi. Dan dando
una regolata a capelli e abbigliamento, ma srotolando la sua conoscenza di
basket, Porelli spiegandogli la Virtus, Bologna, l’Italia e un po’ la vita da
questa parte del mondo. Come ha ricordato, splendidamente, Oscar Eleni:
“Dan Peterson non è stato subito il
figlio della città e di Torquemada: però il suo modo di aggredire, invadere,
distruggere luoghi comuni, evitando patronati, chiassate, cene in osteria,
affascinava la gente. Arrivò e vinse una Coppa Italia, poi si mise a studiare
il fenomeno Virtus cercando di non isolarlo dalla terra dove nasceva. Gianluigi
Porelli gli ha fatto lezioni privatissime, una burrasca al giorno, ma quel dare
e prendere, quel riverniciare dopo aver demolito, l'ansia di scoprirsi e
scoprire, cambiò presto il rapporto. Peterson si affidò al Pigmalione italiano
per cambiare pelle e il costruttore si rese conto che le fantasie dell'uomo che
arrivava da Evanston erano gli squilli di tromba di un mondo nuovo, nuovissimo,
meglio affidarsi all'esploratore per andare a cercare altri territori e se il
basket, in Italia, è cambiato davvero lo deve anche a questi due personaggi o
forse lo deve soprattutto a loro”.
R come RITIRO
A cinquantun’anni,
all’apice del successo come coach, Peterson disse basta. Diverso e unico anche in
questo. Anche se oggi rivede quella decisione e forse è l’unica da catalogare
alla voce “rimpianti”. “Sbagliai. Il
fatto è che essere costretto a dimostrare, a vincere a tutti i costi mi aveva
logorato. Stavo male, e avevo per fortuna altre attività a cui dedicarmi. Ma
quando sono stato richiamato sulla panchina di Milano, nel 2011, ho provato una
delle gioie più grandi della mia vita. Abbiamo fatto quello che potevamo, con
quel gruppo, ma ho davvero voluto bene a quei ragazzi”.
S come SUCCESSI
A Bologna, in una
Virtus che non vinceva più dagli anni Cinquanta, subito la Coppa Italia del
1974, e a seguire lo scudetto numero sette, nel 1976. Lasciando, due anni dopo,
una società e una squadra ben consce di essere tornate tra le protagoniste del
campionato. Il resto a Milano: altri quattro scudetti, due Coppe Italia, una
Korac, una Coppa dei Campioni. Due volte eletto allenatore dell’anno in Italia,
una volta in Europa. Parlano i numeri, ogni commento a margine è superfluo.
T come TESTIMONIAL
“Qui
a Chattanooga, Tennessee, quando il sole ti spacca in quattro…”. Già, non c’era altro da fare che
buttare giù the ghiacciato. E’ passato alla storia, il Peterson degli spot
pubblicitari. Un altro modo di portare un messaggio “baskettaro” anche in casa
di chi non sapeva neppure cosa fosse una palla a spicchi. Quel tipo che diceva
che quel the, per lui, era il numero uno, ha sdoganato la sua passione anche
così.
U come UOMINI
Trattare i giocatori
da uomini. Responsabilizzarli. Caricarli emotivamente. E’ stato il credo di Dan
Peterson, in anni in cui certe teorie e certi metodi di allenamento erano
all’avanguardia, quasi una rivoluzione.
Lo scopriamo nelle parole di Ettore Zuccheri, che fu suo assistente per tre
stagioni. “Dan è stato un grande conduttore di uomini, con lui si arrivava ad
interpretare la figura del guerriero in campo. Ti faceva sentire
importante e trovava mille modi per trasmetterlo. Un esempio?
L’ultimo allenamento della settimana teneva una piccola riunione nello
spogliatoio. Disegnava cartelli che io stesso appendevo sulle pareti e, quando
i ragazzi finivano l’allenamento, teneva il discorso preparatorio per la gara,
proprio nello spogliatoio. Non accennava mai ai cartelli affissi,
sembravano lì per caso, ma i ragazzi li vedevano, eccome!!! Infuocava gli animi,
non ci credete? Così piccolo, ma grande! Diventava alto più di due metri quando
parlava, indicando la via del successo”.
V come VIRTUS
“Porelli non
perde tempo, è organizzato, ha idee chiare. Mi spiega la storia della Virtus.
Mi schiaffa in mano un libro sulla Virtus e 5-6 numeri di Giganti del Basket,
mi parla del contratto, tre anni, rinnovabile ogni anno, se siamo d'accordo.
Tre cose mi convincono che questo è un altro mondo rispetto alla realtà nel
Cile: Bologna è una città di una bellezza straordinaria; vedo il Palazzo dello
Sport, che è un vero gioiello; e vedo la squadra fare un allenamento. Vedere
gente così alta e così talentuosa mi impressiona. Mi piace, in particolare,
Vittorio Ferracini, un combattente, difensore, rimbalzista. Decido di firmare”.
E’ l’inizio della storia bianconera. Raccontato in prima persona in “Quando ero alto due metri”. Qualcosa che resta nel cuore, anche in quello
di un uomo che Bologna l’ha lasciata ormai da trentotto anni. Lo ha ricordato
anche ieri, Peterson, affidando parole dolci ad Alessandro Gallo sul Resto del
Carlino: “Bologna mi ha
trasformato. Ero un dilettante: sono diventato un professionista. Grazie
all’avvocato Porelli. Ogni giorno con lui era come un anno all’Università”.
W come WRESTLING
Cose come la
telecronaca del debutto di Undertaker, datata 1990, entrano nella leggenda. O
certi commenti carichi di ironia, ma anche di passione per una disciplina che
Dan ha seguito e amato davvero. “Ehi
Sensational Sherri, sei settimane da Weight Watchers e poi potrai indossare
quel vestito". Semplicemente unico. E destinato a passare alla storia
del genere. Come nel basket, anche qui l’eterno ragazzo di Evanston ha fatto
epoca.
Z come ZAMPA DI ELEFANTE
D’accordo, all’epoca
i pantaloni andavano così, ma era tutto l’insieme che colpiva. E poi quelli di
Dan erano “a quadrettoni”. Almeno quando sbarcò in Italia e prese la strada di
Bologna. Lo ricorda bene, in quei giorni, Gianfranco Civolani. “Andiamo avanti e vediamo
chi è il Carneade. Terrificante, un omarino che si presenta acchittato come
Timberjack. Terrificanti i capelli lunghissimi a paggio, terrificanti le
bragacce a quadracci, terrificanti le camicie e le scarpe e i concetti, ma sì,
quella rivoluzione annunciata sulla pelle dei lasagnoni che magari avrebbero
presto fatto la forca al Little Dan… E lasciatelo un po' lavorare, voi brutta
gente, tuona il Dux. Daniele viene portato per mano da Porelli il quale gli
insegna a vivere, e siccome l'omarino è di intelligenza sveglia e ha una
straordinaria capacità di assimilazione, subito il risultato è stupefacente.
Diventiamo tutti quanti amiconì e in sostanza lui allena la squadra e la stampa
e i tifosi e quella larga fetta di Bologna che spasima per la Virtus. Ma da
tempo immemore la Virtus non batte più un chiodo e insomma si gradirebbe un
altro tricolore, una volta o l'altra. Il resto è storia, dicevo. Nell'anno di
grazia settantatré Little Dan approda su queste zolle, ci mette un attimo per prendere
le misure e poi regala al popolo l'agognato scudetto, per la cronaca e per la
storia il settimo”.