mercoledì 24 febbraio 2016

PRENDILA COME VIENE, PRENDILA COME VA



Galeotto fu quel negozio da rigattiere a Souderton, Pensylvania. Fu lì, in mezzo a quintali di roba usata, mentre scorreva distrattamente vecchi dischi a 45 giri, che Gary vide quel vestito. E… vide la Luce, naturalmente. “Sentivo come una voce che sussurrava… Elwood… Elwood”. Insomma, su quello scaffale c’era proprio tutto l’occorrente per diventare Elwood Blues, il personaggio interpretato da Dan Aykroyd nel film-cult “The Blues Brothers”. Niente di speciale, direte voi. Beh, allora provate a vestirvi in quel modo, cravatta, occhiali scuri e borsalino compresi, e andare a vincere una gara di 10 chilometri nel weekend successivo. E soprattutto misurate la temperatura a chi, rigorosamente vestito da runner, si vede costretto a guardarvi la schiena.
Era il 1981. Un anno esatto dopo l’uscita del film. Lui era semplicemente Gary Fanelli, uno dei migliori specialisti della corsa su strada in America. Non il numero uno, e nemmeno tra i primissimi, ma comunque uno specialista “on the road” in grado di battere in una gara su strada Sua Maestà Bill Rodgers, o di correre la sua miglior maratona in 2:14:17. Quel battesimo in costume, a Southampton, spaccò il popolo della corsa a metà. Chi apprezzava e chi gridava allo scempio, pensando al mondo del running come a una specie di luogo di culto. Lui aveva un’altra idea in testa. Correre per divertirsi e divertire. Spendere un po’ delle sue energie per strappare un sorriso, sempre e comunque. “Run for fun”, avete presente? Ecco, questo era Gary Fanelli, adorabile buffone del running. E in quanto alla corsa vista come religione, beh, anche su questo Elwood Blues avrebbe qualcosa da obiettare: “Quel giorno a Southampton ero in missione per conto di Dio”. Già, avremmo dovuto pensarci prima…


FUORI DAGLI SCHEMI

Fanelli, del resto, non ha mai vissuto in modo tradizionale. La sua vita è una raccolta di avventure che si incastrano l’una nell’altra. A ritmi frenetici. Tutte coloratissime.
Fin dai tempi della scuola. A diciannove anni abbandonò per un periodo il Montgomery County Community College per unirsi ai ragazzi di una comune a Maui, nelle Hawaii. “Era il 1969, non so se mi spiego. Negli anni Sessanta sono successe cose bellissime e altre cose aberranti. C’era la guerra nel Vietnam, io ho perso il mio primo allenatore laggiù. C’era il “sentire hippie”, tante cose stavano cambiando. Un periodo di rivoluzione pacifica, di mutamento della mentalità nei giovani. C’era il clima di Woodstock. Ma fu anche il periodo dei grandi assassinii dei grandi politici e uomini di pensiero americani. Il presidente John Kennedy, suo fratello Bob, Martin Luther King. Dopo la notizia del massacro di My Lai ero inorridito, volevo davvero cambiare aria, vita. Feci l’autostop in California, poi raggiunsi Maui dove erano stati alcuni miei amici. Finii in una Comune conosciuta come “La Patch Banana”, e giuro, è stato fantastico. A quei tempi ovviamente già correvo, e mi dava un senso di libertà. Ho imparato la meditazione, lo yoga che ho inserito anche nella mia preparazione al running. Maui a quei tempi era un luogo incantevole e incontaminato. Sì, sono stati anni creativi importanti. Da allora passo ogni anno lunghi periodi laggiù. Per me è un posto speciale”.

Del resto, l’esperienza nella comune durò un pugno di mesi. Gary racconta di aver sentito dentro di sé una voce che gli diceva “Tu sei un corridore, e puoi andare davvero forte. Quindi esci di qui”. Detto, fatto. Alla sua maniera.

ABBASSO I BUROCRATI

Ma il popolo della maratona aveva già avuto modo di conoscere Gary Fanelli prima che si mettesse a fare l’attore in corsa. Era successo soprattutto un anno prima, nel 1980. Ai trials olimpici di maratona a Niagara Falls. Già si sapeva come sarebbe andata a finire, e Gary inscenò la sua protesta nel modo più semplice che aveva a disposizione: correndo. Si presentò al via con una t-shirt su cui era scritto a caratteri enormi “La strada per Mosca finisce qui”. E partì a razzo, restando al comando per 15 miglia, un centinaio di metri davanti ai primi inseguitori, e mostrando a tutti il suo stato d’animo. Passò a metà gara in 1:04:39, e dopo essere stato riassorbito dal gruppo non si fece da parte. Finì ventiduesimo in 2:16:49.

“Volevo che quelli fossero i “nostri” Giochi olimpici. Sapevamo tutti che non avremmo corso a Mosca. Non avevo nulla da perdere e decisi che quella gara doveva diventare più veloce di quella che si sarebbe disputata a Mosca. Per diciassette miglia ho tenuto un ritmo forsennato, e la cosa ha funzionato. Sandoval, Durden e Hefner, i primi tre classificati, corsero tutti sotto le 2:11. Waldemar Cierpinski a Mosca vinse in 2:11:03. Missione compiuta, direi…”.

Già. Una lepre contro il boicottaggio. Con quello spirito di ironia che ha sempre annacquato anche i dispiaceri, nella vita di Fanelli. “Non ho mai saputo rinunciare all’umorismo. Questo a volte mi ha procurato problemi, già dai tempi della scuola. Ma che posso farci? C’è una radice irlandese, da parte di mia mamma, e devo averla ereditata. Mà ogni tanto mi diceva: “Gary, ma pensi davvero che tutto sia così divertente?”. Non ho una risposta neppure adesso. Ma sembrava divertente a me, ecco tutto”.

Ma lo spirito ribelle, pronto a battersi per principi giusti, non lo ha mai abbandonato. Fanelli era già un top runner quando gli atleti americani più importanti, dopo la morte di Prefontaine, avevano fatta loro la sua battaglia per i diritti di chi si allena ore e ore ogni giorno e non può vivere di miseri sussidi, da dilettante povero. Lo scandalo dello “shamateurism”, quando i grandi campioni Usa, probabili olimpici compresi, faticavano per vivere mentre i colleghi dell’Europa del Nord e dell’Est avevano tutti gli aiuti dallo stato, pur sbandierando lo status di dilettanti, fu sgretolato grazie a una lunga battaglia in cui Gary fu parte attiva.
“Abbiamo combattuto fino ai primi anni Ottanta. A muso duro contro la AAU. E alla fine abbiamo ottenuto i riconoscimenti che ritenevamo giusti. Venivamo pagati per il nostro lavoro durissimo, e finalmente non sottobanco. Mi ricordo di riunioni-fiume in camere d’albergo con Bill Rodgers, Don Kardong, Joan Benoit, Benji Durden e tanti altri. A me la vita cambiò in meglio, ed ero felice. Prima avevo un contratto per abbigliamento e scarpe, qualcosa racimolavo, ma dovevo darmi da fare. Ho fatto anche il venditore di prodotti alimentari naturali, a fine anni Settanta mi feci coinvolgere nel progetto Health Food, ho lavorato in un negozio di prodotti bio. E per anni ho distribuito polline d’api in compresse nella zona di Philadelphia, negli ambienti sportivi. Facevo anche vendite per corrispondenza. Insomma, mi sono sempre dato da fare”.

CARNEVALE DI CORSA

Due mesi dopo i Trials di Niagara Falls, Fanelli seminò nientemeno che Bill Rodgers e Rod Dixon in una corsa su strada di dieci chilometri, nella sua Philadelphia. Era il suo momento migliore: il 6 settembre di quell’anno, a Montreal, ottenne il personale in maratona 2:14:17. E nel 1981 tornò sotto i riflettori viaggiando al comando della Boston Marathon per sedici miglia. Opinione comune: uno così avrebbe potuto superare facilmente quei limiti, se avesse gestito meglio le proprie corse. “Ma io ho sempre fatto quello che ritenevo giusto fare. Spesso correvo da “lepre” designata, anche se all’epoca non si poteva uscire allo scoperto e dirlo ufficialmente. Sì, anch’io credo che se non avessi preso l’iniziativa certe maratone avrei potuto chiuderle con risultati cronometrici migliori. Ma per me è stato importante correre a quel modo, dare il massimo e non farmi troppe domande. E sono soddisfatto di aver tenuto i ritmi che ho tenuto per quarantadue chilometri…”

Poi, c’era sempre quella Luce che incombeva. Dopo il “battesimo” in Pensylvania dell’81, a fine anno Gary “Elwood” Fanelli portò il suo completo scuro sulle strade della New York City Marathon. Lì aveva già corso in 2:18:19, Fred Lebow lo conosceva bene e l’idea di avere un pazzo in corsa che gli movimentava e rallegrava l’evento lo solleticava. E poi, dove lo trovi uno che tagliato il traguardo poco oltre le due ore e quarata ha ancora la forza di sfilare un’armonica dal taschino e intonare “I can’t turn you loose”? “A New York è stato fantastico. La gente lungo le strade impazziva e io mi sentivo davvero un intrattenitore a tutti gli effetti”.

Soltanto l’inizio. Il passaggio di Elwood divenne un “must” sul ponte di Verrazzano come a Boston, e addirittura sul traguardo della maratona di Stoccolma, all’Olympic Stadium. Spesso le condizioni meteo non aiutavano, e il corpo del maratoneta raggiungeva temperature a rischio. Una volta a Pittsburgh, arrivò col suo completo impeccabile e le mani piene di cubetti di ghiaccio. “Lo show deve andare avanti”, commentò.

Dopo Elwood fu la volta dei personaggi costruiti a tavolino. Alla Wall Street Rat Race, per lui una gara “sprint” di soli tre chilometri si presentò nei panni di Gary Walstreet vestito di tutto punto con tanto di valigetta da uomo d’affari. In Giamaica corse nei panni di Billy Chester Polyester (cappello di paglia, bermuda taglia extralarge e camicia hawaiana) chiudendo la prova in 2:24:41, e avrebbe potuto fare molto meglio se non avesse corso le ultime cento yards all’indietro, danzando al ritmo di una musica reggae. E come dimenticare Clarence Nerdelbaum altro cavallo di battaglia, il fissato del computer che correva con in mano un calcolatore e una tasca colma di penne a sfera. Matite, chiavette usb? “Ne sono arrivati tanti, dopo. Ma ancora oggi a correre in queste condizioni un’intera maratona ci pensano in pochi. Dite che non ha senso? Per me ne ha: mi diverte veder sorridere il prossimo”.

IL SOGNO OLIMPICO

Resta il fatto che Gary Fanelli aveva iniziato a correre seriamente. E come tutti i ragazzi dotati di un certo talento, anche lui aveva fatto il suo bravo sogno olimpico. Quello che aveva sfiorato per quindici miglia nell’80, sapendo bene che sarebbe finita lì.
Ma uno così poteva non andarci, alle Olimpiadi? No di sicuro. E infatti Gary arrivò anche lì, con uno dei suoi stranissimi giri di amicizie fraterne e sincere che il suo carattere ispirava. Ovviamente, non si presentò a Seul, nel 1988 con la divisa degli Stati Uniti. Ma in questo caso, per fortuna nemmeno con uno dei suoi più riusciti travestimenti…

“Nel 1987 ero andato di nuovo a vivere alle Hawaii. Avevo diversi amici nella comunità dei runners di Honolulu, e in quel periodo ospitarono alcuni atleti delle Samoa Americane. Mi raccontarono che si stavano preparando per il loro debutto ai Giochi Olimpici, in programma a Seul, e che stavano cercando un tecnico per allenare la squadra di atletica. Incontrai quelli della federazione, consegnai un curriculum e mi presero. Mi sono trasferito là e ho iniziato ad allenare, ma un giorno mi dissero che c’era la possibilità di portare un maratoneta ai Giochi, e che avevano pensato a me. Con il benestare del Comitato Olimpico locale, la cosa andò in porto. Così, dopo aver disputato due Trials olimpici negli Usa e dopo il boicottaggio del 1980, finalmente coronavo il mio sogno… Ci sono voluti vent’anni, da quando iniziai a pensarci nel ’68. Ma l’importante è arrivare…”

A Seul Fanelli finì cinquantunesimo su duecento partenti, in 2:25:35, ovviamente record nazionale di Samoa. Gli mancavano venti giorni al trentottesimo compleanno.

“Sì, ero di gran lunga il più vecchio, ma riuscii comunque a commuovermi. Alla cerimonia inaugurale sfilammo in sei. Io, i pugili Maselino e Mika Masoe, i sollevatori di pesi Lopesi Faagu e Tauama Timoti, il lottatore Alesana Sione. Vestirmi eccentrico per la gara? Mai nemmeno pensato. Anche uno come me, che si diverte a ridere e sdrammatizzare conosce il significato di un’Olimpiade. Se rappresento il paese di Fanelli allora posso travestirmi e metterla sullo scherzo. Lì dovevo cercare di dare il massimo. Poi quando sono tornato, negli anni ho sentito tanta gente dire che quella partecipazione contava zero, perché avevo gareggiato per American Samoa. Sarà, ma io alle Olimpiadi ci sono stato”.

TAKE IT EASY

Vero, questa è una storia diversa. Un’altra dimensione. Quella di uno che vive nella filosofia del “prendila come viene, prendila come va”. Che però sa affascinarti quando te la spiega.

“Non so dire se tutti abbiano capito il mio approccio alla corsa e alla vita. So soltanto che negli anni Sessanta imparai quella massima: “Do your thing, and you’ll be king”. Ho anche faticato a superare l’idea che altri potessero pensare chissà cosa di quello che facevo, poi ho capito che dovevo seguire la mia strada, fare le mie scelte. Sentirmi libero. E questa liberazione mi ha permesso di fare cose davvero divertenti, creative, spesso innovative. Suonare, scrivere poesie, danzare. Magari correre vestito da Elwood Blues, perché no? Alla fine non mi importa molto di quello che sembro, mi basta non aver mai fatto del male a nessuno e avere una dignità. Quando mi chiedevano autografi firmavo “Laugh! Gary Fanelli”. Eh sì, bisogna saper sorridere nella vita. Se no come facciamo a sopportare tutto?”.

 

 

GARY FANELLI è nato a Philadelphia il 24 ottobre 1950. Noto per i suoi travestimenti in gara, ha gareggiato anche ad alti livelli. Ha un personale di 14:05 nei 5000 metri e uno di 2:14:17 in maratona, ottenuto nel 1980 a Montreal. Il fratello Michael è stato coach della Nazionale Usa di atletica. Ha partecipato alle Olimpiadi di Seul del 1988 correndo la maratona con i colori delle Samoa Americane e giungendo al 51mo posto.


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