WEISZ, QUELLA CASA IN VIA VALERIANI
Il 16 aprile 1896
nasceva quello che insieme a Hermann Felsner va considerato il più grande
allenatore del Bologna FC 1909, ARPAD WEISZ, che la follia del nazismo fece
passare dai camini di Auschwitz. Lo ricordiamo insieme.
di Marco Tarozzi
È come se all’improvviso gente come Fabio
Capello o Marcello Lippi non desse più notizia di sè, e nessuno si prendesse la
briga di andare a cercarla. Fantascienza, certo. Eppure con Arpad Weisz è
andata esattamente così. E dietro questa sparizione c’è stata una tragedia.
Quella di un uomo, di una famiglia, di un intero popolo. Durante, e dopo, il
mondo fuori rimosse. E rimosse Bologna, che quasi settant’anni più tardi,
finalmente, ha dedicato a questo grande maestro del calcio una targa nel luogo
in cui costruì la sua gloria e quella rossoblù. Sul muro dello stadio Dall’Ara,
da cui fu allontanato quando le leggi razziali misero al bando gli ebrei. Era
il più grande, quando se ne andò. Da tecnico del Bologna aveva vinto, un anno
prima, il Torneo dell’Esposizione di Parigi, all’epoca il massimo alloro del
calcio europeo. E due scudetti. Anzi, due e mezzo: perché nella stagione ‘38/39
Felsner, tornato sulla panchina del Bologna dopo che Weisz aveva dovuto
lasciare l’Italia perché l’aria per gli ebrei si era fatta irrespirabile, portò
a compimento un’opera iniziata dal predecessore. È il più grande ancora oggi,
nella storia rossoblù, insieme allo stesso Felsner e a Bernardini. Ma solo da
poco la sua storia torna a galla. Nei dettagli. Grazie a un libro, e a un
autore, Matteo Marani, attento e sensibile, al punto da rispolverarla dagli
archivi.
Arpad Weisz era un genio della panchina.
Innovatore fino quasi ad essere rivoluzionario, per l’epoca. Era nato per
allenare, e lo capì quando ancora stava in mezzo al campo, ala sinistra della
Nazionale ungherese, simbolo di un calcio che faceva scuola. Era un grande del
calcio, ma finì la sua vita dimenticato o, peggio ancora, cancellato dal
ricordo. Era ebreo e questo, per le aberranti ideologie dell’epoca, fu la sua
colpa e la causa della sua tragedia personale. Si chiamava Weisz, e quella W
diventò subito V in un’Italia autarchica che aborriva tutto ciò che aveva un
vago sentore di diversità, di esterofilia. Ma in fondo un cognome “aggiustato”
sembrava ancora un problema risolvibile, nei primi anni del ventennio.
Soprattutto per un giovane già segnato dagli eventi, carattere di ferro e
obiettivi ben precisi in testa.
Nato a Solt, in Ungheria, nel 1896 (prime
incertezze: per alcune fonti l’anno di nascita è il 1891), Weisz era stato
prigioniero di guerra in Italia, e ci tornò da giocatore di calcio. Sei
presenze in Nazionale, una delle quali in amichevole contro gli azzurri nel
’23, giocò in patria nel Torekves e nel Makkabi Brno, da noi nell’Alessandria e
per una stagione (’25-26) nell’Inter dove segnò tre reti in undici partite.
Cominciò a scoprirsi allenatore proprio ad Alessandria, da “secondo” di
Rangone, e la consacrazione arrivò in casa nerazzurra. All’Inter, Weisz si
trovò tra le mani un centromediano di classe infinita, Fulvio Bernardini, e
lanciò in prima squadra un ragazzino destinato a fare storia, Giuseppe Meazza.
Nel novembre del ’27 un brutto colpo del destino gli ispirò una grande mossa
tattica: Luigi Allemandi, terzino azzurro appena arrivato a rinforzare la
difesa nerazzurra, fu squalificato a vita per illecito sportivo, e il tecnico
ungherese mise mano alla formazione “inventandosi” la famosa «linea dei cinque
terzini», ovvero arretrando le due mezze ali e incastrandole nella seconda
linea, col doppio compito di arginare e lanciare gli attaccanti. In Inghilterra
Herbert Chapman, tecnico dell’Arsenal, inventava in quegli anni il Sistema.
Weisz ne anticipò il concetto in un calcio italiano ancora lontano anni luce
dalle innovazioni d’Oltremanica. Più che una novità, la sua fu una mezza
rivoluzione che portò all'Inter lo scudetto del 1929-30 e due secondi posti. In
mezzo, una salvezza-miracolo col Bari nel ’31-32.
Nella stagione ’34-35 aveva accettato la
panchina del Novara in Serie B, ma il Bologna lo chiamò dopo quindici giornate
a sostituire il connazionale Lajos Kovacs. Weisz chiuse quella stagione al
sesto posto, poi mise mano alla squadra e costruì quello che probabilmente è
stato il Bologna più forte di tutti i tempi.
Nel ’35-36 vinse il suo primo scudetto alla
guida dei rossoblù, l’anno dopo fece il bis con una squadra rinforzata
dall’arrivo degli uruguaiani, Andreolo su tutti, e dalla scommessa Dino
Fiorini, difensore lanciato nell’undici titolare. Fu lui a trasformare Amedeo
Biavati, a vent’anni ancora mezz’ala e riserva di Sansone, nella più forte ala
destra italiana. E fu anche il primo a scegliere la via del preparatore
atletico, facendo arrivare dal River Plate l’argentino Pascucci. Il suo Bologna
fece davvero tremare il mondo: dopo i due scudetti consecutivi andò a dominare
il Torneo dell’Esposizione di Parigi del ’37, vero e proprio Mondiale per club,
schiantando il Sochaux in semifinale e il Chelsea (i “maestri” d’Albione) in
finale.
Era un uomo tranquillo, Arpad Weisz. Uno che
faceva filare d’amore e d’accordo stelle come Schiavio, Gasperi, Andreolo,
Sansone, Reguzzoni, Gianni, Biavati, con la finezza dello psicologo. Se uno
sgarrava, invece di urlargli in faccia lo invitava a cena a casa sua e davanti
alla tavola imbandita lo catechizzava con tranquillità. Un uomo colto e
sensibile. Che una sera di fine ottobre del 1938, mentre il suo Bologna
veleggiava ad alta quota in campionato, andò a salutare in lacrime il
presidente Dall’Ara. Le leggi razziali erano alle porte, l’Italia non era più
un porto sicuro per gli ebrei. Weisz fuggì a Parigi, passò dall’Olanda, dove
prese in mano la squadra del Dordrecht portandola, naturalmente, in breve tempo
ad alta quota.
L’Olanda sembrava il porto sicuro, e invece i
tedeschi arrivarono anche lì. E anche lì lo perseguitarono. Gli tolsero la
squadra, la dignità, la voglia di lottare. Lo costrinsero a cercare ancora
riparo, stavolta a Budapest. Nella sua Ungheria fu catturato dai nazisti e
deportato ad Auschwitz con la famiglia. Non vide più la moglie e i due figli.
La loro fine sta scritta sullo Yad Vashem, immenso archivio dove si cerca di
ricostruire l’identità di tutte le vittime dell’olocausto. Elena, Roberto e
Clara se ne andarono il 5 ottobre del ’42. Arpad il 31 gennaio del ’44. Non un
addio, non una riga su un giornale, non una voce nella città che lui aveva
portato alla gloria sportiva. Bologna dimenticò in fretta, mentre Weisz cadeva
vittima del delirio nazista. Bologna oggi lo ricorda. Non è mai troppo tardi.
(da "100 Storie per 100 anni", Minerva Edizioni)
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