di Marco Tarozzi
BOLOGNA
Un anno oggi, che Romanino se n’è andato. Che noi
proviamo a immaginarlo su certi prati verdi, nel cielo o chissà dove, di nuovo
a dare del tu al pallone come faceva ai tempi in cui il Paradiso era in terra,
e ci giocava il suo Bologna. Per confortarci, perché in questi addii è sempre
chi resta a cercare conforto, immaginiamo che abbia ritrovato i vecchi
compagni, proprio come aveva fatto qualche anno fa tra i tavoli dell’Osteria
del Sole, inventandosi attore per il film che raccontava lo scudetto e
prendendosi anche in giro insieme a Pascutti, Perani, capitan Pavinato. Che
belli erano anche allora, invecchiati serenamente insieme condividendo quella
gloria, ripensando a quel giorno di giugno che li aveva uniti per sempre.
TALENTO
PRECOCE. Sogniamo anche che in qualche modo abbia potuto
ritrovare il suo presidente, Renato Dall’Ara, che ogni volta che un giocatore
gli interessava veramente andava di persona a discutere il suo acquisto, e così
fece con i dirigenti del Torino per Fogli. In Piemonte, Romanino c’era arrivato
ragazzo. Giocava attaccante in Promozione nella squadra del suo paese, Santa
Maria a Monte, una dozzina di chilometri da Pontedera. Come tutti, da quelle
parti, sapeva mettere le mani nei motori delle Vespe e dei piccoli motofurgoni,
gli Ape. La prospettiva era quella di finire in fabbrica, alla Piaggio o
nell’indotto. Ma era troppo bravo col pallone, e anche se il fisico non era
possente finì nel taccuino degli osservatori del Toro. Vennero a fargli un
provino e lo tolsero dal campo dopo dieci minuti: lui pensò di aver sbagliato
qualcosa, invece avevano solo paura che qualcun altro si accorgesse del suo
talento. Visto e preso.
IL
BLITZ DI DALL’ARA. A diciotto anni Romano debuttava in Serie A
con la maglia granata. Era il 27 maggio 1956, al Filadelfia il Toro batté la
Sampdoria 2-1. Dalla metà della stagione successiva, 1956-57, diventò titolare
fisso. Più di una volta Dall’Ara aveva mandato osservatori a visionare le sue
partite. Prima che finisse il campionato, il Commendatore salì a Torino per
chiudere l’operazione. La società in quel momento era senza presidente, retta
da un comitato esecutivo formato da Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio
Liberti. C’era necessità di incassare, ma quel gioiellino arrivato dalla
Toscana era incedibile. Dall’Ara finse interesse per il portiere Rigamonti, la
tirò lunga e solo nel momento più acceso della trattativa buttò là quasi
distrattamente il nome di Fogli. Non fu semplice, ma l’affare si fece: ottanta
milioni e il cartellino di Bonifaci, con la promessa di lasciare Romano in
prestito ai granata per un’altra stagione. Che poi fu quella della definitiva
consacrazione: nel Toro il ragazzo diventò protagonista, tutti se ne
interessarono ma lui era già del Bologna.
IL
TESTIMONE. In rossoblù sarebbe
rimasto per dieci lunghe stagioni, a partire dal 1958-59, mettendo in archivio
344 presenze e 15 reti, conquistando la Mitropa Cup nel 1961 e lo scudetto del
1964, indimenticabile. Mediano, sì, ma di quelli dotati di piede raffinato e
intelligenza viva. Dall’Ara fu un secondo padre: arrivò anche nella piazza
principale di Santa Maria a Monte per fare il testimone di nozze, insieme alla
moglie Nella, al matrimonio di Fogli, e in paese l’arrivo di quella berlina
nera di gran lusso se lo ricordarono per un pezzo.
E in nome del Presidentissimo, Romano e i compagni scesero in campo il 7 giugno
1964, dopo una stagione esaltata dai risultati e scossa dalla montatissima
vicenda-doping, per giocarsi lo spareggio contro l’Inter campione d’Europa.
Lui, Dall’Ara, quel capolavoro che aveva costruito negli anni non poté
goderselo: l’ultimo tragico scherzo del suo cuore era arrivato proprio quattro
giorni prima dell’appuntamento all’Olimpico.
INDELEBILE. Ma anche
quella maledizione del destino contribuì a fare di quei novanta minuti un
ricordo indelebile. Romano Fogli lo ha sempre detto: “La morte del presidente ci dette motivazioni che nessun altro poteva
avere. In qualche modo lo sentivamo con noi. Segnai il primo gol, in un modo
che non mi apparteneva, ma il mio capolavoro fu il passaggio a Nielsen per il
raddoppio. Quella domenica, chiunque ci avesse incontrato avrebbe perso la
partita, perché lassù c’era Renato Dall’Ara ad attendere che noi realizzassimo
il suo sogno. E’ sempre difficile mettere insieme le parole “triste” e
“meraviglioso”, ma quel giorno all’Olimpico fu proprio così: triste e
meraviglioso insieme”.
INTENDITORE. Poi
vennero i momenti di gloria con la maglia del Milan, suo amore di bambino: due
stagioni, la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale. Infine, un sereno viale del tramonto a
Catania, dove chiuse ormai trentasettenne la carriera. Il Fogli successivo, da
tecnico, è stato un grande scopritore di talenti, e ne è sempre andato fiero,
pur senza vantarsene: “Di
ragazzi in gamba ne ho trovati anche quando lavoravo per le giovanili del
Bologna. Ricordo un mattino a Imola, a vedere le prodezze di un bimbo di nove
anni che giocava all’ala. Corsi in sede a caldeggiare quel nome. Si chiamava
Giancarlo Marocchi. Ed è stato bello ritrovarmi nell’Under 21 bimbetti come
Gamberini, Zaccardo, Cipriani, che avevo seguito quando avevano una decina
d’anni a Bologna”.
AMORE
UNICO. Ma alla fine, il Bologna
è rimasto appoggiato al cuore più di ogni altro amore calcistico. Lo ricordano
bene i figli Mirko e Massimiliano: “Papà
non ha mai dimenticato le tappe del suo cammino nel calcio, si è sempre sentito
grato nei confronti di chi ha creduto in lui. Del Torino, del Milan. Ma Bologna
è stata Bologna: un pezzo di vita, un momento centrale, determinante. Diceva
sempre: vincere lo scudetto quel giorno all’Olimpico, e in quel modo, è stata
la mia più grande soddisfazione”.
Più Stadio, 21 settembre 2022