venerdì 23 settembre 2022

UN ANNO SENZA ROMANO FOGLI


di Marco Tarozzi

BOLOGNA


Un anno oggi, che Romanino se n’è andato. Che noi proviamo a immaginarlo su certi prati verdi, nel cielo o chissà dove, di nuovo a dare del tu al pallone come faceva ai tempi in cui il Paradiso era in terra, e ci giocava il suo Bologna. Per confortarci, perché in questi addii è sempre chi resta a cercare conforto, immaginiamo che abbia ritrovato i vecchi compagni, proprio come aveva fatto qualche anno fa tra i tavoli dell’Osteria del Sole, inventandosi attore per il film che raccontava lo scudetto e prendendosi anche in giro insieme a Pascutti, Perani, capitan Pavinato. Che belli erano anche allora, invecchiati serenamente insieme condividendo quella gloria, ripensando a quel giorno di giugno che li aveva uniti per sempre.

TALENTO PRECOCE. Sogniamo anche che in qualche modo abbia potuto ritrovare il suo presidente, Renato Dall’Ara, che ogni volta che un giocatore gli interessava veramente andava di persona a discutere il suo acquisto, e così fece con i dirigenti del Torino per Fogli. In Piemonte, Romanino c’era arrivato ragazzo. Giocava attaccante in Promozione nella squadra del suo paese, Santa Maria a Monte, una dozzina di chilometri da Pontedera. Come tutti, da quelle parti, sapeva mettere le mani nei motori delle Vespe e dei piccoli motofurgoni, gli Ape. La prospettiva era quella di finire in fabbrica, alla Piaggio o nell’indotto. Ma era troppo bravo col pallone, e anche se il fisico non era possente finì nel taccuino degli osservatori del Toro. Vennero a fargli un provino e lo tolsero dal campo dopo dieci minuti: lui pensò di aver sbagliato qualcosa, invece avevano solo paura che qualcun altro si accorgesse del suo talento. Visto e preso.

IL BLITZ DI DALL’ARA. A diciotto anni Romano debuttava in Serie A con la maglia granata. Era il 27 maggio 1956, al Filadelfia il Toro batté la Sampdoria 2-1. Dalla metà della stagione successiva, 1956-57, diventò titolare fisso. Più di una volta Dall’Ara aveva mandato osservatori a visionare le sue partite. Prima che finisse il campionato, il Commendatore salì a Torino per chiudere l’operazione. La società in quel momento era senza presidente, retta da un comitato esecutivo formato da Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio Liberti. C’era necessità di incassare, ma quel gioiellino arrivato dalla Toscana era incedibile. Dall’Ara finse interesse per il portiere Rigamonti, la tirò lunga e solo nel momento più acceso della trattativa buttò là quasi distrattamente il nome di Fogli. Non fu semplice, ma l’affare si fece: ottanta milioni e il cartellino di Bonifaci, con la promessa di lasciare Romano in prestito ai granata per un’altra stagione. Che poi fu quella della definitiva consacrazione: nel Toro il ragazzo diventò protagonista, tutti se ne interessarono ma lui era già del Bologna.

IL TESTIMONE. In rossoblù sarebbe rimasto per dieci lunghe stagioni, a partire dal 1958-59, mettendo in archivio 344 presenze e 15 reti, conquistando la Mitropa Cup nel 1961 e lo scudetto del 1964, indimenticabile. Mediano, sì, ma di quelli dotati di piede raffinato e intelligenza viva. Dall’Ara fu un secondo padre: arrivò anche nella piazza principale di Santa Maria a Monte per fare il testimone di nozze, insieme alla moglie Nella, al matrimonio di Fogli, e in paese l’arrivo di quella berlina nera di gran lusso se lo ricordarono per un pezzo.
E in nome del Presidentissimo, Romano e i compagni scesero in campo il 7 giugno 1964, dopo una stagione esaltata dai risultati e scossa dalla montatissima vicenda-doping, per giocarsi lo spareggio contro l’Inter campione d’Europa. Lui, Dall’Ara, quel capolavoro che aveva costruito negli anni non poté goderselo: l’ultimo tragico scherzo del suo cuore era arrivato proprio quattro giorni prima dell’appuntamento all’Olimpico.

INDELEBILE. Ma anche quella maledizione del destino contribuì a fare di quei novanta minuti un ricordo indelebile. Romano Fogli lo ha sempre detto: “La morte del presidente ci dette motivazioni che nessun altro poteva avere. In qualche modo lo sentivamo con noi. Segnai il primo gol, in un modo che non mi apparteneva, ma il mio capolavoro fu il passaggio a Nielsen per il raddoppio. Quella domenica, chiunque ci avesse incontrato avrebbe perso la partita, perché lassù c’era Renato Dall’Ara ad attendere che noi realizzassimo il suo sogno. E’ sempre difficile mettere insieme le parole “triste” e “meraviglioso”, ma quel giorno all’Olimpico fu proprio così: triste e meraviglioso insieme”.

INTENDITORE. Poi vennero i momenti di gloria con la maglia del Milan, suo amore di bambino: due stagioni, la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale. Infine, un sereno viale del tramonto a Catania, dove chiuse ormai trentasettenne la carriera. Il Fogli successivo, da tecnico, è stato un grande scopritore di talenti, e ne è sempre andato fiero, pur senza vantarsene: “Di ragazzi in gamba ne ho trovati anche quando lavoravo per le giovanili del Bologna. Ricordo un mattino a Imola, a vedere le prodezze di un bimbo di nove anni che giocava all’ala. Corsi in sede a caldeggiare quel nome. Si chiamava Giancarlo Marocchi. Ed è stato bello ritrovarmi nell’Under 21 bimbetti come Gamberini, Zaccardo, Cipriani, che avevo seguito quando avevano una decina d’anni a Bologna”.

AMORE UNICO. Ma alla fine, il Bologna è rimasto appoggiato al cuore più di ogni altro amore calcistico. Lo ricordano bene i figli Mirko e Massimiliano: “Papà non ha mai dimenticato le tappe del suo cammino nel calcio, si è sempre sentito grato nei confronti di chi ha creduto in lui. Del Torino, del Milan. Ma Bologna è stata Bologna: un pezzo di vita, un momento centrale, determinante. Diceva sempre: vincere lo scudetto quel giorno all’Olimpico, e in quel modo, è stata la mia più grande soddisfazione”.

Più Stadio, 21 settembre 2022

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