lunedì 10 ottobre 2022

LE INTERVISTE IMPOSSIBILI - RENATO DALL'ARA

 


di Marco Tarozzi

BOLOGNA

 

Commendator Dall’Ara, sinceramente ci sentiamo in imbarazzo.
“Cosa è successo, posso fare qualcosa?”
E’ che la ricordiamo nel giorno peggiore, quello più triste.
“Cosa vuole, il destino non si può mica programmare. Però se avessi potuto farmi ascoltare lassù, quel giorno a Milano, una preghiera l’avrei mandata”.
Chiedendo cosa?
“Quattro giorni in più da vivere. Anzi, facciamo cinque: lo scudetto all’Olimpico, e un giorno intero per far festa dopo”.
Sa da cosa vorremmo iniziare? Per chiarezza, davvero è sempre stato convinto che “Fiat Lux” significhi “faccia lei?”
“Dica la verità, a lei non è mai capitato di maccheronare una frase per far divertire gli amici?”
Aspetti, c’è la notizia: mi sta dicendo che in realtà il latino lo conosce?
“No che non lo conosco. Ma mi diverto a giocarci. Lo so che quella frase significa altro, ma sente come suona bene?”
Non lo ha mai imparato perché non ha potuto fare, come dicevano i nonni, “le scuole alte”?
“Altra sciocchezza. Eravamo otto fratelli, chi ne aveva voglia andava avanti con gli studi. La famiglia Dall’Ara ha un passato nobiliare, e i miei genitori erano proprietari terrieri, mica nullatenenti”.
Però lei ha perso presto papà.
“Nel 1896, a quattro anni. Mamma si prese a carico la gestione del podere Stracchina, appena fuori le mura di Reggio Emilia. Rimasta sola, ha organizzato la raccolta del latte per tutta la città. Venivano casari da tutta la campagna”.
Ecco da chi ha ereditato lo spirito imprenditoriale.
“Devo tanto a mia madre Teresa. Per questo negli ultimi anni della sua vita l’ho voluta a Bologna con me. Anche se bisognava starle un po’ dietro, poverina, la testa si era appannata dopo tutto quel lavorare per noi”.
I suoi affari li ha organizzati qui, appena finita la prima guerra mondiale.
“Ho fatto il maresciallo di Cavalleria a Padova. Quando tutto è finito, ho comprato dal reparto una ventina di cavalli. Erano ancora fortissimi, ma non servivano più. Ho iniziato a venderli ai mercati, ho messo insieme un bel gruzzolo e ho impiantato la mia prima attività. Sono partito da via del Pratello: un’aziendina con tre magliaie”.
Poi ha avuto il colpo di genio. Guardando quelle foto del generale Nobile.
“Oggi si direbbe che era “la rockstar dell’epoca”. L’eroe della spedizione al Polo. Lui e la Tenda Rossa erano su tutte le copertine. Notai quel giaccone di lana che indossava: era elegante, doveva tenere anche parecchio caldo. Decisi di riprodurlo, inventai il modello “Norge” e la mia azienda svoltò”.
Il nuovo impero era il triangolo tra via Boldrini, dove c’era l’entrata dello stabilimento, viale Pietramellara e via Amendola. Arrivò ad avere più di 250 magliaie.
“Nel palazzo di via Amendola c’erano gli appartamenti in cui vennero ad abitare, nel tempo, tanti giocatori, allenatori e dirigenti del Bologna”.
Ecco, ci siamo. E’ vero che fu costretto a occuparsi della squadra della città?
“E’ vero che il presidente Bonaveri aveva finito la sua era, troppo legato da amicizia a Leandro Arpinati, caduto in disgrazia coi vertici del regime. Ma prima di me fu interpellato Alberto Buriani, ex presidente della Sef Virtus, nome notissimo in città. Fu lui a fare il mio nome alla società”.
Quello di un imprenditore che, si è sempre detto, non sapeva niente di pallone.
“Eccoli lì, ancora! Ma allora siete prevenuti! Allora, vi dico esattamente come mi presentò Buriani. Disse: ci sarebbe quel Dall’Ara, ha una quarantina d’anni (ne avevo quarantadue), una bella azienda ed è un appassionato, va allo stadio ogni domenica e qualche volta segue anche la squadra in trasferta”.
Vuol dirci che si intendeva di calcio?
“Beh, insomma… come tutti. Quelli che si trovavano davanti al bar Otello erano tutti espertoni? Non sa quante volte avrei voluto andarci anche io, là in mezzo. Ma sa, col mio mestiere… non sarebbe stato elegante”.
Però col tempo ha saputo azzeccare tanti acquisti giusti.
“Chiariamo: il Bologna lo gestivo io, per qualcuno ero anche troppo sparagnino, ma la realtà è che sono cresciuto con l’idea che un’azienda deve avere sempre i conti in regola, e così doveva essere anche in società. Però sapevo a chi affidarmi quando c’era da osservare qualche giovane di belle speranze. Per fare un nome, Lele Sansone da Andreolo in poi mi ha portato tanti bei nomi”.
Una volta arrivò con Seghini, però.
“Lasciamo stare, che personaggio quello. A parte l’imbarazzo del cognome, qui a Bologna, con tutto che la mia segretaria era la signorina Sega. Però, insomma, una svista può capitare. Faele mi segnalò anche Haller, tanti anni dopo”.
Le brillano gli occhi, quando parla del tedescone.
“L’ho voluto a tutti i costi. Sono salito ad Augsburg tante volte, per vederlo giocare e per convincerlo. Sempre in macchina, e un paio di volte ho anche rischiato l’osso del collo”.
Dopo i fasti degli anni Trenta e del Bologna che faceva tremare il mondo, il calcio ha cambiato punti di riferimento. La famiglia Agnelli, il petroliere Moratti, il Milan. E negli anni Cinquanta il Bologna di Dall’Ara ha faticato parecchio.
“Lo ammetto, e ricordo che la tifoseria  si lamentava. Una volta non mi fecero salire su un autobus, si erano dimenticati dei quattro scudetti, del Torneo di Parigi. Ma io avevo un obiettivo preciso. Volevo riportare il Bologna sul trono del campionato”.
E’ partito lungo, per riuscirci.
“Sicuro. Lasciando i nomi altisonanti ai cosiddetti squadroni, e andando a tesserare gente giovane e piena di talento. Poi, lo sa come è la piazza. Arrivano un Fogli ragazzino, un Tumburus, un Pascutti, un Furlanis, un Pavinato ancora giovani e si domanda: ma chi sono questi? Poi, però, se ne sono accorti di chi erano”.
Tutto merito dei giocatori?
“Cosa vuol dire? Lo so dove volete arrivare voi del quinto potere…”
Sarebbe quarto, Commendatore.
“Non faccia il modesto. Comunque, lei vuole fami parlare di Bernardini”.
Mi sembra normale, lo scudetto glielo ha riportato lui.
“Senta mo, le cose stanno così. Io e lui non ci siamo proprio mai presi. Io dicevo una cosa e lui sembrava ne facesse un’altra apposta. Però, sa cosa? Io a un certo punto ho capito che se volevo vincere ancora, mi serviva lui. E allora senza doverci amare per forza ci siamo rispettati. Ed è stato di parola: tre anni mi ha chiesto per lo scudetto, tre anni ci ha messo”.
Lo sa che la faccenda del doping pare sia stata montata dal suo amico Gipo Viani?
“Lo so perché lo dite adesso, e quassù dove sono qualche libro di storia si trova ancora. Ma figurarsi se in quei giorni avrei potuto sospettare di lui”.
Quei giorni però le hanno dato una brutta botta. Quel dolore ha iniziato a scalfire il suo cuore.
“Non so, siete voi quelli che fanno poesia. Io so quando è successo, e dove. Dentro quell’ufficio a Milano, in un’estate torrida. Diceva il dottor Pinetti che avrei dovuto restarmene a casa, ma come si fa? C’erano i miei ragazzi da difendere, c’era il mio Bologna. Io dovevo essere lì”.
Sono passati quasi sessant’anni. Si è pentito di essere andato a incontrare Moratti e Perlasca, quel giorno?
“Io non ho niente di cui pentirmi. Mi amareggia non essere stato lì, a Roma, quando i miei ragazzi hanno vinto lo scudetto. Mancava così poco, quattro giorni”.
Però lo avrà visto, no?
“L’ho visto eccome, da quassù. E sono contento che la gente se lo ricordi ancora”

Più Stadio, 3 giugno 2022

 


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