sabato 28 settembre 2024

NEL PAESE DI GIACOMINO


 

“Mi piace la campagna, in fondo ci sono nato. Se studiassi agraria, potrei fare il contadino con basi scientifiche, moderne. A Portonovo ci sono le zanzare, a Bologna c’è la nebbia e molto freddo. Eppure non c’è altra campagna al di fuori di Portonovo dove io vorrei stare, e non c’è altra città oltre a Bologna dove vorrei andare”.
Giacomo Bulgarelli


Benvenuti a Portonovo, quindici chilometri da Medicina, un punto smarrito nella Bassa dove è nato l’ultimo gigante rossoblù. Ieri avrebbe festeggiato le ottantadue primavere, Giacomo Bulgarelli, se non se ne fosse andato troppo presto. Ma se venite qui, a camminare in un pomeriggio d’ottobre dentro una storia di paese e di margine, troverete mille dettagli che parlano ancora di lui. Magari, proprio come Giacomino da bimbo, avrete la fortuna di vedere un “saiano”. Dicono che non esista, un animale così; ma se lui lo ha incrociato, non può che essere stato in questa campagna.

MONDO PICCOLO. Portonovo ha un cuore antico. Fu fondata nel 1334, quando fu costruito il “Canale di Trecenta”, il tratto navigabile di Buda che portava le merci verso Ferrara e Modena. Un porto nuovo, appunto: per questo la strada che arriva dentro al paese è una sottile linea grigia: dalla San Vitale quattro chilometri dritti verso Buda, una curva ad angolo retto verso destra, mezzo chilometro e di nuovo giù, altri cinque in linea retta, che si perdono nel nulla. “E’ impossibile non trovare la piazza con il bar-trattoria”, dice sorridendo Romina Gurioli, presidente dell’associazione Pro Portonovi’s. “Prima che la strada faccia una leggera deviazione a sinistra e poi prosegua verso il Sillaro, ci sbatti contro”. La grande casa dove sorge il bar, con la trattoria ancora a pieno regime, è quella in cui è nato Giacomo. L’esercizio era gestito da suo zio, a fianco c’era il negozio di alimentari di papà Leandro, nell’edificio accanto la latteria della zia. Un mondo piccolo, guareschiano, da cui Giacomo partì appena dodicenne per andare a frequentare il collegio San Luigi a Bologna. Senza mai perdere il legame con le radici. Questo era davvero il porto nascosto, per lui. La pace e il silenzio in cui immergersi dopo le mille sfide del calcio.


LA TERRA BUONA. C’è un altro dettaglio che rende unico il paese. I terreni facevano parte della Partecipanza di Medicina, ma dopo il dissesto economico del 1892 divennero proprietà di un certo cavalier Benelli, che poi li cedette alla famiglia Tamba. Nel 1933 arrivarono le assicurazioni Generali di Trieste e acquistarono tutto: terreni, case antiche e nuove, in un certo senso anche chi ci viveva dentro, perché la mano d’opera per i lavori nelle immense proprietà veniva scelta sul posto. Un ambiente di operai.. della terra, in cui la famiglia Bulgarelli spiccava per quello status di borghesia che può permettere una attività commerciale ben avviata. Insomma, la famiglia “stava bene”, come si diceva allora. E Giacomo era uno studente modello, anche se dovette frequentare due volte la quinta elementare: non perché fosse stato bocciato, ma perché andare alle medie a Medicina era complicato e ci volle il tempo per organizzargli il trasferimento al San Luigi. Due anni dopo la sua partenza, tutto il nucleo familiare prese la strada di Bologna. Compresa Olga, la “dada” di Giacomino, grande maestra di cucina tradizionale, regina del tortellone, della tagliatella al ragù di cipolla e del “friggione”, che da queste parti è ancora oggi un piacere del gusto di cui è difficile privarsi.

MILANISTI MAI. “Giacomo fin da bambino ci sapeva fare, col pallone”, ricorda Secondo Selva, classe 1936, per quasi vent’anni presidente della società di calcio di Portonovo, nel cui ambiente gravita ancora,  dopo mezzo secolo. “Qui si usciva da scuola e si andava a giocare nel campetto dietro la chiesa, per interi pomeriggi. Poi lui finì nella squadra dei giovani, che qui avevamo ribattezzato “O la va o la spacca”. Beh, a lui è andata alla grande, niente da dire. Io negli anni ho coltivato una fede milanista: sa com’è, Giacomo non era ancora il Bulgarelli amato da tutti, e Rivera dettava legge. Lui non me l’ha perdonata, anche se poi ci è andato vicino, al Milan: ogni volta che tornava, scherzando, diceva “mè i milanèsta an’ i salùt brisa”, e ridevamo come matti”.



TESSERATO. Qui tutto è a due passi. Lo stadio, indicato così anche da un cartello stradale, è a duecento metri dalla piazza principale, che naturalmente è stata intestata al campione. Inaugurato nel 1976, ci gioca il Portonovo, oggi presieduto da Giuseppe Astorino, da sempre nella categoria Amatori. “Gli ho passato il testimone tre anni fa”, continua Selva, “dopo che io lo avevo ricevuto da Veliano Brusa, sessanta anni di amore per il nostro calcio. Non tutti lo sanno, ma a fine carriera Giacomo è stato tesserato per il Portonovo per almeno tre stagioni. E non solo lui: portò anche Giuseppe Vavassori, il portiere del Bologna anni Settanta, che però qui non voleva stare tra i pali e diventò centrocampista”. Su questo campo, Bulgarelli portava anche gli amici delle amichevoli domenicali: Giorgio Comaschi, Fio Zanotti, Andrea Mingardi, Jimmy Villotti, e poi Colomba, Pecci, Massimelli. Erano i giorni in cui Portonovo, la piccola Portonovo, si sentiva al centro del mondo.

VICINO E  LONTANO. Per dire, in quel cinema che è un gioiellino, costruito proprio nel 1933 dopo l’acquisto delle Generali, in una sera di ottobre del 1976 Sandro Ciotti venne a presentare in prima assoluta “Il profeta del gol”, il film su Johann Cruijff di cui era regista. Lo portò Bulgarelli, naturalmente, e con lui Pesaola, tanti giocatori e tanti giornalisti. Finì tutto con la leggendaria “Rustida a Newport”, con Ciotti virtuoso della fisarmonica, chili di pesce sulla griglia e fiumi di buon vino della campagna.
Perché Portonovo è esattamente come la descrive Romina Gurioli: “Un posto al centro del mondo dove c’era tutto, il pallone, la scuola, il cinema, i negozi. Eppure, anche un posto lontano da tutto”. Per questo, forse, Giacomino non riusciva a stare lontano da qui.

Marco Tarozzi





domenica 25 agosto 2024

QUEI SEI TRIONFI EUROPEI

 



Negli anni Trenta, due successi in Coppa dell’Europa Centrale. Poi l’Expo di Parigi, battendo i “maestri” inglesi.
La Mitropa, il trionfo sul Manchester City
e la cavalcata con Mazzone in Intertoto


È vero che il Bologna non si affacciava alla massima ribalta del calcio europeo da sessant’anni. Ma guai a dimenticare la storia, che ci ricorda che è stato il primo club italiano a vincere qualcosa di importante a livello internazionale, ormai quasi un secolo fa. E poi ci sono i numeri, che non mentono mai, e ci parlano di 148 sfide ufficiali con settanta vittorie, quasi il cinquanta per cento. Ci vorrebbero pagine e pagine, per ricordare tutte le partecipazioni rossoblù alle coppe europee; dobbiamo contenerci, e ci limitiamo a ricordare quelle che hanno arricchito con trofei sfavillanti la bacheca della società.

PRIMA VOLTA. Ma prima, diamo spazio a una curiosità. La prima sfida internazionale del Bologna è un’amichevole, con la formula dell’andata e ritorno, e l’avversario un club di Trieste. In quel lontano 1911, la città fa parte dell’impero austro-ungarico, dunque… è straniera. Emilio Arnstein, che nel 1909 era stato tra i fondatori della squadra rossoblù alla Birreria Ronzani, lassù aveva vissuto, e appena ventenne aveva dato vita già tre anni prima al Black Star. Così, il 30 aprile 1911 va in scena la prima trasferta all’estero, con tanto di “intrigo internazionale”: sconfitti 2-1, i giocatori rossoblù sulla via del ritorno vengono scambiati per irredentisti e trattenuti per ore dalla polizia austriaca. Il 14 maggio, la sfida casalinga viene interrotta sul 2-1: Arnstein, occasionalmente nel ruolo di arbitro, concede due rigori ai suoi e i triestini abbandonano il campo infuriati. Tutto si risolve con un “terzo tempo” provvidenziale all’osteria della Cesoia, a pochi metri dal campo di gioco.



PROTAGONISTA. Nella prima metà degli anni Trenta, il campionato è segnato dal dominio della Juventus, che vince cinque scudetti in fila. Ma a livello internazionale Angelo Schiavio e compagni diventano lo squadrone da battere. Conquistando, prima squadra italiana a riuscire nell’impresa, la Coppa dell’Europa Centrale nel luglio del 1932. In panchina c’è Guya Lelovich, ungherese, arrivato in Italia negli anni Venti da giocatore, voluto come spalla da Hermann Felsner una volta diventato allenatore e ritrovatosi prima guida all’improvviso dopo l’addio del boemo. A parte gli inglesi, che snobbano gli altri convinti come sono della propria superiorità, c’è il miglior calcio del continente. Si gioca in piena estate, e il Bologna mostra la sua forza d’urto già nei quarti di finale con il 5-0 rifilato allo Sparta Praga; il ritorno è una formalità, anche se l’arbitro ci mette del suo per favorire i cechi, che vincono 3-0. In semifinale c’è il First Vienna, che ha in squadra i nazionali Hoffman, Rainer e Blum. Al Littoriale finisce 2-0 con le reti di Sansone e Maini, risultato difeso coi denti nella partita di ritorno, vinta dagli austriaci per 1-0. Senza saperlo, il Bologna ha già il trofeo in tasca. Nell’altra semifinale, incidenti assortiti tra Juventus e Slavia Praga portano all’esclusione di entrambe, e la truppa di Lelovich vince a tavolino la Coppa.


DOPPIETTA
. La seconda volta è nell’estate del 1934. Le squadre invitate al torneo sono le prime quattro dei campionati italiano, ungherese e austriaco. I rossoblù affondano il Bocksay Debreczin, poi strapazzano il Rapid Vienna, con goleada al Littoriale (6-1 con doppiette di Reguzzoni e Schiavio) e ko ininfluente in Austria (1-4), e in semifinale il fortissimo Ferencvaros di Sarosi (1-1 in trasferta e clamoroso 5-1 al Littoriale). In finale c’è l’Admira Vienna, che ha tra i titolari parecchie colonne del Wunderteam. Il 5 settembre del ’34, in Austria, i rossoblù cedono di misura, 2-3. Quattro giorni dopo si prendono la rivincita con gli interessi: davanti al proprio pubblico Carlo “Rigoletto” Reguzzoni è una furia: ne mette tre alle spalle di Platzer, numero uno del Rapid, e al resto pensano Maini e Fedullo. Finisce 5-1, con un’altra coppa prestigiosa da mettere in bacheca.



NEL SEGNO DI WEISZTre anni più tardi, con il grande Arpad Weisz in panchina, il Bologna va ad insegnare calcio anche agli inglesi, al Torneo Internazionale dell'Expo di Parigi. Nel 1937, appena vinto il quarto scudetto della sua storia, affronta la kermesse parigina ed è l’apoteosi. Cadono in sequenza i francesi del Sochaux  (4-1), i cechi dello Slavia Praga (2-0) e infine anche gli inglesi: in finale il Chelsea è asfaltato, 4-1 con la solita tripletta di Carlo Reguzzoni. In Europa non c’è una squadra di club che valga il Bologna.



SOTTOSTIMATO. A metà degli anni Cinquanta, la vecchia Coppa dell’Europa Centrale è diventata Mitropa Cup. Non è più un trofeo brillantissimo, anche perché il calendario si è infittito: oltre alla Coppa dei Campioni, destinata alle squadre vincitrici dei campionati nazionali, sono nate e hanno fatto proseliti Coppa delle Coppe e Coppa delle Fiere. Ma tutti sanno quanto il presidente Dall’Ara tenga all’appuntamento, e pazienza se tra gli addetti ai lavori qualcuno si è già affrettato a ribattezzarla “Coppa del Nonno”. Nel 1961 partecipano club di tre sole nazioni: Austria, Italia e Cecoslovacchia. Nella fase eliminatoria i rossoblù pareggiano con la Sampdoria e battono Stalingrad e Austria Vienna. Dopo questo successo, arriva il passaggio di testimone in panchina: dalle semifinali in poi, al posto di Federico Allasio arriva Fulvio Bernardini. La semifinale va in scena in autunno, contro i cecoslovacchi del Kladno. In trasferta, il Bologna vince 2-1, al ritorno al Comunale fa il minimo sindacale, vincendo 1-0 con il gol del diciottenne Mario Rossini. In finale c’è da affrontare un’altra squadra cecoslovacca, lo Slovan Nitra, avversario modesto ma capace di eliminare dalla competizione altre due italiane, Torino e Udinese. A Nitra i rossoblù vanno in vantaggio con Nielsen e Perani dal dischetto, ma si fanno raggiungere sul 2-2. Nel ritorno al Comunale, il 4 aprile 1962, sotto una pioggia battente e con poche migliaia di tifosi sugli spalti in una giornata feriale, non c’è storia: Demarco, Pascutti e Nielsen firmano il 3-0 e tutti hanno fretta di correre al riparo, persino Bernardini che non aspetta in campo che il presidente Terpikto consegni la coppa a capitan Pavinato. Ma Renato Dall’Ara si gode il momento.



LEGGENDARI. Nel 1970 tocca a Edmondo Fabbri, l’ex Ct azzurro che ancora rimugina e soffre per il ko del ’66 contro la Corea. Ma grazie a lui, il Bologna torna a mettere trofei in bacheca. Dopo la Coppa Italia conquistata a giugno, a settembre è la volta della Coppa Italo-Inglese, a finale diretta con andata e ritorno. Ci sono la squadra vincitrice della Coppa Italia, appunto il Bologna, e quella che ha conquistato la Football League Cup, ovvero il Manchester City. Che ha un blasone enorme: due anni prima è stato campione d’Inghilterra e cinque mesi prima ha trionfato in Coppa delle Coppe. In rosa ha cinque nazionali inglesi: il portiere Corrigan, Doyle, Bell, Lee e Summerbee. Oltre a capitan Tony Book, “the Maine man”, bandiera del club. Al Comunale i rossoblù vincono di stretta misura, 1-0 firmato da Rizzo. Al ritorno il Maine Road, “fortino” dei Citizens, è una bolgia. Il Bologna trova i suoi eroi in Vavassori, che para l’imparabile, e Bruno Pace, esaltato dalla ribalta europea, che mette lo zampino nei gol di Perani e Savoldi. Finisce 2-2 e il Bologna alza la coppa. Anche gli inglesi, duri al limite della scorrettezza in campo, fanno ala all’uscita dei vincitori, applaudendo. È il 23 settembre 1970.



ULTIMO ALLORO. L’ultimo successo europeo è del 1998. Carlo Mazzone fa volare i rossoblù nella Coppa Intertoto: nell’estate, cadono il National Bucarest e poi la Sampdoria di Spalletti in semifinale. L’ultimo atto è col Ruch Chorzow, già all’andata torna in campo (al 75mo) un rinato Beppe Signori . Finisce 1-0 al Dall’Ara, e due settimane dopo, a casa loro i polacchi tentano il tutto per tutto, si scoprono e il Bologna vince 2-0. Non è solo un trofeo che va ad arricchire la bacheca: vale anche un posto in Coppa Uefa, e da questo momento la squadra inizierà un cammino da protagonista che lo porterà fino a un passo dalla finale.

"Nelle Valli Bolognesi", n. 61/  2024


mercoledì 21 agosto 2024

PETTOROSSI SI È PRESO PARIGI

 


Il velocista bolognese sarà in gara nei 200 con Tortu e Desalu. Da semiprofessionista.
Scoperto al Cus Bologna, cresciuto in Virtus, lavora come sviluppatore dati per un’azienda statunitense e si ritaglia a fatica i tempi per gli allenamenti

 

di Marco Tarozzi

 

Forse è vero che anche le Olimpiadi stanno cambiando, seguendo un’evoluzione dei tempi che non sempre è sinonimo di miglioramento. Ma dentro questo entusiasmante calderone a cinque cerchi si trovano ancora storie che danno speranza, ricordandoci che lo “spirito olimpico” è ancora acceso, proprio come la fiamma (elettrica, a proposito di progresso) che arde su quella mongolfiera nel cielo di Parigi. Una di queste, tra le più belle, è iniziata a Bologna e racconta del terzo “duecentista” della spedizione dell’atletica azzurra, partito insieme a Filippo Tortu e Fausto Desalu: Diego Aldo Pettorossi.

 

SCUOLA CUS. Figlio d’arte (papà Mario era un talento della pallacanestro), Diego è nato sotto le due torri il 13 gennaio 1997. Lo sport è sempre stato importante in casa Pettorossi, ma lui non ha scelto il parquet ma i campi sconnessi e spesso infangati del rugby, accasandosi al Cus Bologna e affrontando la trafila delle giovanili. Fino alla scoperta dell’atletica leggera, con immediato innamoramento, sempre partendo dalla pista di via del Terrapieno. Un talento precoce: prime gare scolastiche nel 2011, primo tricolore sugli 80 metri, categoria Cadetti, un anno dopo.

 

AMERICA. Da allora, Diego ha seguito un percorso professionale importante: dopo la maturità scientifica, il trasferimento a Torino per studiare scienze motorie e un master in amministrazione aziendale conseguito alla Angelo State University di San Angelo, Texas, quindi un altro in analisi dei dati ottenuto a San Antonio, che gli ha assicurato un mestiere di sviluppatore dati per un’importante azienda statunitense. Però non ha mai accantonato l’atletica, né smarrito passione e voglia di sognare in grande. Come succede a qualunque atleta non professionista, ci sono stati periodi più difficili e cali di rendimento, ma dal 2021 anche un salto di qualità che lo ha portato ai vertici della velocità azzurra.

 

CRESCITA. È di quell’annata il primo 200 corso sotto il “muro” dei 21 secondi (20”94 a Sestriere); nel 2022 arrivano il primo tricolore assoluto sulla distanza, un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo e un significativo ritocco al personale (20”54 a Rieti). Dopo un 2023 frenato da problemi fisici, il ritorno ad alta quota nell’annata olimpica, con la seconda partecipazione agli Europei e un nuovo limite, 20”45, ottenuto a Poznan, in Polonia.

 

SELF MADE MAN. Sono tempi cronometrici di grande valore, ma più di tutto conta il modo in cui questo ragazzo li ha ottenuti. Da semiprofessionista, appunto, anche se i carichi di lavoro e l’impegno sono quelli di un atleta di vertice. È stato lui stesso a raccontare, con serenità, i sacrifici che ha dovuto affrontare combinando mestiere e allenamenti, soprattutto nel lungo periodo passato oltreoceano: «Concentrato sul lavoro dalle sette del mattino alle quattro del pomeriggio, poi andavo ad allenarmi sulla pista di un liceo, da solo, e a volte restavo al buio a metà seduta perché spegnevano l’impianto di illuminazione». Con Leonardo Righi, tecnico modenese che lo segue dal 2020, gli appuntamenti erano lunghe “call” in orari da licantropi, sempre comunque dopo mezzanotte, per trasmettere dati raccolti con lo smartwatch o brevi filmati girati da passanti a cui Diego chiedeva il favore di trasformarsi per qualche minuto in videomakers.

 

CONQUISTA. Negli ultimi mesi, il velocista bolognese ha chiesto una lunga aspettativa all’azienda per concentrarsi sull’obiettivo olimpico. Ha gareggiato nei meeting europei per accumulare punti per il ranking, e al momento di fare i conti si è ritrovato in cinquantesima posizione a livello internazionale, e a Parigi erano ammessi i primi quarantotto. «Non ho gufato, però in cuor mio ho sperato che almeno due atleti, per chissà quale motivo, rinunciassero a quello che per chiunque di noi resta un sogno della vita. Alla fine è successo e ho toccato il cielo con un dito».

 

RINGRAZIAMENTI. Ci ha messo tanto del suo, ma sa di dover dire grazie a chi ha creduto in lui. Certamente a Leonardo Righi, che lo accompagna da tre anni in una crescita costante che gli ha spianato la strada verso Parigi. Ma anche a Cristian Cavina, suo primo allenatore, e a un grande ex come Kareem Streete-Thompson, vicecampione del mondo indoor del salto in lungo nel 2001, che ha creduto in lui aiutandolo ad avere una borsa di studio e strutture all’avanguardia per gli allenamenti negli States.

 

INVENTORE. Oggi Diego gareggia per la Libertas Livorno, ma non dimentica le origini e le società bolognesi dove il suo talento è emerso: il Cus Bologna in cui ha militato all’inizio e la Virtus Atletica per cui è stato tesserato dal 2013 al 2020. A ventisette anni sa di non poter sperare nella chiamata di un gruppo militare, che in Italia resta la soluzione migliore per chi vuol dedicarsi a tempo pieno allo sport. Allora si ingegna per rendere tutto più semplice: sta lavorando allo sviluppo di un’app per facilitare l’allenamento di chi fa atletica leggera, sorta di diario per registrare dati di allenamento e statistiche, con una piattaforma per tenere sempre in contatto atleti e allenatori. L’idea è quella di farne buon uso per programmare il prossimo quadriennio, perché è certo di non aver potuto ancora esprimere tutto il proprio potenziale. Anche così, comunque, è arrivato a Parigi 2024.


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Papà Mario, tricolore con l’Olimpia di Peterson

 

Forse è anche questione di Dna. O comunque c’entra l’aria che si respira in un ambiente familiare in cui alla pratica sportiva si dà il meritato valore. Mario Pettorossi, padre di Diego Aldo, è stato un talento della pallacanestro.  Classe 1966, nato in Costa d’Avorio e adottato da ragazzino da una coppia di Milano, entrò nelle giovanili dell’Olimpia. Potenziale pazzesco, grande attaccante, era  nel team guidato da Dan Peterson che conquistò il tricolore nel 1985, ma già sedicenne aveva più volte completato il roster anche nel gruppo scudettato nel 1982. Insomma, aveva accanto campioni come Joe Barry Carrol, Mike D’Antoni,  Russ Schoene, Meneghin, Bariviera, Boselli, Gallinari, e i giovani Pittis e Premier. Peterson gli rimproverava certe disattenzioni difensive, ma ha sempre ammesso:  «Era chiaro che Mario aveva grande potenziale, un atleta incredibile». Successivamente ha giocato a Porto San Giorgio, ed ha continuato nelle serie minori fino ad oltre quarant’anni: nel 2010 era a Bagnolo di Po, in Prima Divisione. Oggi è responsabile business developement di un’azienda bolognese, e naturalmente primo tifoso di Diego Aldo.


(Più Stadio, luglio 2024)


lunedì 22 gennaio 2024

INFINITO


 

Sei stato il mio calcio.
Il mio calcio se ne va con te.
Avrei voluto che tu fossi immortale.

martedì 9 maggio 2023

IL CALCIO VISTO DA UN POETA

 

Appassionato tifoso del Bologna, che aveva visto giocare negli anni più gloriosi, e giocatore talentuoso: per Pasolini il gioco del pallone era un fenomeno sociale. A Biagi disse: “Avrei voluto essere un calciatore”

testo di Marco Tarozzi


I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”, ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita”.

La Bologna di Pier Paolo Pasolini passa da lì, anzi si può dire che sia nata lì. Tra il liceo Galvani e i Prati di Caprara, il campo dove nel 1909 aveva preso il via la leggenda rossoblù, il luogo dove “quei matti che corrono dietro una palla” avevano iniziato a darsi appuntamento per dedicare un po’ del loro tempo e della loro gioventù al “football”. Lì passava le sue ore anche lo studente liceale Pasolini, reimmergendosi nello spirito di una città che fino a quel momento era stata solo un luogo di nascita. Perché in quel periodo la casa natale in via Borgonuovo era un ricordo sbiadito, quasi rimosso per via dei trasferimenti del padre, capitano di fanteria, tra Parma, il Veneto e il Friuli. Anche se il Bologna, inteso come amore sportivo, era sempre presente, persino nei colori rosso e blu con cui l’adolescente Pier Paolo aveva tappezzato la camera a Casarsa, paese natale di mamma Susanna.

SOGNANDO BIAVATI. C’erano quegli interminabili pomeriggi passati correndo dietro al pallone, e c’era anche lo spettacolo delle partite vere, quelle viste dagli spalti dello stadio. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Quello era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone. Che domeniche, al Comunale…”
Amedeo Biavati fu il primo mito vero. Un campione del mondo che ispirò quel ragazzo magro ma già potente, un fascio di nervi, nelle sue sgroppate sulla fascia. Intorno c’era i
l Bologna di prima della guerra, quello dell’ultimo Felsner e dell’ultimo Schiavio, di Reguzzoni, di Sansone e Fedullo, del quinto e sesto scudetto. E Pier Paolo, sull’erba dei Prati, provava e riprovava il “doppio passo”, finché aveva fiato ed energia in corpo.


BULGARO, FACCIA DA ATTORE. Quando Pasolini giocava a pallone, lasciava trasparire un entusiasmo quasi infantile. Lo hanno ricordato nel tempo anche gli amici più cari, come Ninetto Davoli o Sergio Citti, impegnati tante volte al suo fianco in quella che allora si chiamava Nazionale Attori e Cantanti, e iniziava ad esibirsi per beneficenza. Lui era il capitano, naturalmente. E da quel gruppo passarono Gianni Morandi, Ugo Tognazzi, Franco Nero, Philippe Leroy, Enrico Montesano, Enzo Cerusico, Maurizio Merli.
Una passione di cui sono testimonianza proprio le parole di Citti, suo storico collaboratore così come di Bertolucci e Scola. “
Una volta incontrò Giacomo Bulgarelli. Restò incantato: pareva avesse visto Gesù Cristo”. A Giacomino, leggenda rossoblù, il Pasolini regista arrivò anche a proporre un ruolo importante ne “I racconti di Canterbury”. Sosteneva che oltre ad essere un prosatore del calcio, a differenza di Riva che ne rappresentava la poesia, il Bulgaro avesse anche la faccia giusta per stare davanti alla macchina da presa. Ma forse i tempi non erano maturi perché un eroe del pallone si mescolasse a quelli del cinema, anche se il precedente di Raf Vallone, che prima di diventare attore aveva giocato in Serie A con i colori del Torino, avrebbe potuto invogliare quel ragazzo destinato a diventare una bandiera rossoblù. Che comunque ringraziò, declinando l’invito.

AMORE E PALLONE. Più tardi, Pasolini riuscì comunque a coinvolgere i suoi idoli, in modo totalmente diverso. Nel 1963, mentre lavorava a “Comizi d’amore”, documentario pensato con l’intento di conoscere le opinioni degli italiani sulla sessualità, l'amore e il buon costume, e per capire il cambiamento della morale dei suoi connazionali, riuscì a sondare il mondo del pallone e lo fece proprio attraverso i giocatori del Bologna. Irrompendo all’allenamento dei rossoblù per intervistarli e provocando un imbarazzo diffuso, perché quasi sessant’anni fa parare di certi argomenti e in certi contesti, e farlo senza filtri o remore, era piuttosto complicato. Date un’occhiata a quello spezzone: troverete Pavinato che sembra il più deciso, Pascutti che dice pane al pane e vino al vino, Bulgarelli che attacca un sermoncino da studente modello, Furlanis che divaga, Negri che evita l’argomento (come del resto faceva con ogni altro argomento). Una testimonianza da un mondo ancora chiuso, pieno di cose non dette.


TIFOSO VERO. C’è dunque il Pasolini tifoso, accanto al Pasolini giocatore. Entrambi appassionati. Dopo gli anni giovanili, il primo continuò a frequentare gli stadi, e quando possibile anche le partite del Bologna: a Roma si presentò spesso all’Olimpico per vedere i rossoblù impegnati contro la Roma o la Lazio. Gli piaceva andarci in compagnia, e il sodale preferito era Paolo Volponi, che condivideva con lui la fede rossoblù pur essendo nato ad Urbino. E il Comunale, oggi intitolato a Renato Dall’Ara, era sempre nei suoi pensieri, quando non addirittura nelle sue rime: “…E so come sia terso in questo ottobre / il colle di San Luca sopra il mare / di teste che copre il cerchio dello stadio…”

SFIDA TRA REGISTI. Il secondo, quello che andava personalmente in campo, restò agguerrito anche in età matura. Sempre all’ala, sempre a spendersi generosamente, sempre in cerca della vittoria perché perdere non gli piaceva affatto. Per dire, uscì dal campo arrabbiatissimo in occasione dell’improvvisato derby tra le troupes di “Novecento” e di Salò o le 120 giornate di Sodoma”, quando lui e Bertolucci interruppero i lavori sui set che distavano pochi chilometri l’uno dall’altro per sfidarsi in una partita accesissima. Si arrabbiò, Pasolini, perché quell’incontro come al solito lo aveva preso dannatamente sul serio, mettendo a disposizione anche la muta di maglie (rossoblù, ci mancherebbe) per la squadra, e una volta in campo aveva subito capito che i compagni avevano preso l’impegno sottogamba. Per la felicità di Bertolucci, che nel giorno del suo compleanno, seppure da semplice spettatore, vide il team di “Novecento” vincere 5-2.

FENOMENO SOCIALE. Pier Paolo Pasolini amava il calcio perché lo considerava fondamentale all’interno della nostra società. Il calcio è un fenomeno sociale, che lui spiega come “un sistema di segni, un linguaggio. Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi)”.
Lui lo conosceva davvero, quel significato. Al punto da non avere dubbi nemmeno sulla risposta da dare ad Enzo Biagi che gli chiese cosa avrebbe voluto diventare, senza cinema né scrittura: “
Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.



LA SOLITUDINE DEL POETA. Pier Paolo Pasolini a Roma aveva costruito la sua grandezza e coltivato la sua profonda solitudine. Scrivendo opere che hanno segnato il tempo, da “Ragazzi di vita” a “Una vita violenta”, da “Teorema” all’incompiuto e drammatico “Petrolio”; creando un cinema poeticamente tragico, fatto di accattoni e Vangeli. E c’è tragicamente il calcio anche a segnare la sua fine: su un campetto squallido del litorale, uno di quelli su cui si tirano calci sghembi al pallone, morì di una morte violenta e mai davvero chiarita una notte d’autunno del 1975. In quell’agguato non se ne andò semplicemente un personaggio famoso e controverso, uno scrittore, un regista, ma un uomo libero e controcorrente, e per questo assediato dai dubbi e da una malinconica tristezza. Uno che non aveva dimenticato i luoghi di Bologna: il Galvani, i Prati di Caprara, il Comunale, posti che aveva amato e nei quali aveva bruciato passioni ed emozioni.

("Nelle Valli Bolognesi", n. 2/2022)

 

 


mercoledì 19 aprile 2023

QUANDO BILL BOWERMAN COMBATTEVA IN APPENNINO

 


Il leggendario allenatore dell’atletica statunitense (e di Steve Prefontaine) partecipò con la 10th Mountain Division alla conquista dei Monti della Riva nel 1945, spezzando la Linea Gotica tedesca

 

di Marco Tarozzi

 

Nella storia dell’atletica, Bill Bowerman ha un posto da protagonista. Praticamente una leggenda. A partire dagli anni Cinquanta, ha alimentato la grande tradizione dei runners dell’Oregon, guidando tra gli altri un mito della corsa come Steve Prefontaine, che uscendo dalla Marshfield High School scelse la University of Oregon proprio per farsi allenare da lui, che era il migliore. E’ stato un pioniere e un divulgatore, anticipando il fenomeno della corsa “per tutti”, il boom che ha portato milioni di amatori a muoversi, attraverso uno dei gesti più semplici che conosciamo, sulle strade del mondo. Ha dato vita a un’azienda che nel tempo è diventata un’icona dell’abbigliamento sportivo, una vera e propria multinazionale, curandone i primi passi da imprenditore “homemade” ma tutt’altro che improvvisato.
Ma prima di tutto questo, Bill Bowerman ha fatto altro. E’ stato un soldato, un ufficiale in tempi di guerra, mettendo ogni sua conoscenza al servizio di un ideale di libertà. Ha partecipato agli ultimi fuochi del secondo conflitto mondiale del secolo scorso, impegnato sui monti dell’Appennino emiliano, a una manciata di chilometri da Bologna, ad organizzare l’offensiva americana contro i tedeschi. Ed è questa storia, questa parte della sua vita certamente meno conosciuta, che vi raccontiamo stavolta.



I GIORNI IN APPENNINO – Bowerman partecipa alla Liberazione nei ranghi della 10th Mountain Division dell’86mo Reggimento, arrivata a Napoli alla vigilia di Natale del ’44 e subito salita a Nord. Una divisione speciale, addestrata in Colorado sulle Rocky Mountain, di cui fanno parte molti maestri di sci e alpinisti, arruolatisi su base volontaria. Tra gli altri, c’è anche Bob Dole, che nel ’94 si candiderà alle presidenziali Usa, contro Bill Clinton. Dole è sottotenente, nell’aprile del ’45 gli toccherà guidare un drappello di una decina di uomini nell’assalto a una località chiamata Torre Jussi, con i tedeschi annidati su una collina, e rischierà la vita, ferito in uno scontro a Castel d’Aiano.
La 10th Mountain Division arriva nella Valle del Dardagna a metà febbraio, con l’obiettivo di conquistare i Monti della Riva e il Monte Belvedere. Sono roccaforti della Wermacht, luoghi strategici da cui i tedeschi possono indirizzare le azioni dell’artiglieria tedesca. Assicurarsi il controllo della “Riva Ridge”, come gli americani hanno ribattezzato la zona, vuol dire sfondare una Linea Gotica fin qui impenetrabile, e assicurare una marcia trionfale per la liberazione di tutta l’Italia.





CLIMB TO GLORY – Il generale George Hays è il comandante della divisione. Il capitano Bill Bowerman, che sarà promosso maggiore nel corso delle operazioni successive, ha un ruolo fondamentale. E’ il responsabile della logistica. Da quelle parti molti ricordano ancora le storie raccontate da genitori e nonni, di quando gli americani, prossimi all’assalto decisivo, hanno l’assoluta necessità di reperire muli, per trasportare il materiale necessario all’impresa su quei sentieri impervi. Il comando ha sede a Lizzano in Belvedere, e da lì gli uomini comandati da Bowerman si muovono verso tutti i casolari per cercare animali da tiro. Una “requisizione” necessaria e non forzata: i soldati rilasciano ai proprietari, contadini e allevatori locali, una regolare ricevuta con cui possono recarsi al comando per farsi pagare l’inatteso “acquisto”.
Ci si muove di notte, il 18 febbraio 1945, partendo da La Cà di Vidiciatico. E’ la “climb to glory”, silenziosa, efficiente. Gli americani attaccano in salita, senza fare rumore: le piccozze, che servono a guadagnare metri su un terreno arduo, sono avvolte nella stoffa. La via scelta è giudicata “non scalabile”, anche dai tedeschi. Sono in 700, invece, ad arrampicarsi, per un’impresa che gli stessi alleati giudicano rischiosissima, tanto che nell’assalto hanno previsto la presenza di sei medici, quando solitamente una truppa ne ha soltanto uno al seguito. La nebbia scende ad aiutarli, nascondendo la lunga fila degli scalatori che arriva in prossimità delle linee nemiche cogliendole nel sonno. I tedeschi, colti di sorpresa, perdono le loro posizioni privilegiate, ma organizzano un contrattacco che sfocerà in una cruenta battaglia durata cinque giorni. Nella notte tra il 18 e 19 febbraio, mentre infuria la battaglia, i genieri del 126mo Mountain Engineers costruiscono una teleferica in prima linea, qualcosa di storico, che va da Cà di Julio a Cappel Buso, 540 metri di lunghezza e 200 di dislivello. Servirà a trasportare a monte munizioni e materiali, ma anche a spostare feriti e caduti. Alla fine, molti meno di quanto si era temuto. Le perdite americane sono contenute: 21 soldati morti, 52 feriti. La notte del 23 febbraio i tedeschi si ritirano, e parte l’assalto al Monte Belvedere. Bill Bowerman sarà ancora operativo nella battaglia di Monte Gorgolesco, e in quella per la conquista di Iola di Montese, nella quale cadrà il norvegese naturalizzato statunitense
Torger Tokle, campione di salto con gli sci, più volte primatista nazionale della disciplina. Quindi, la 10th Mountain Division continuerà la sua marcia di liberazione, attraversando per prima il Po e spingendosi fino ad Arco di Trento.

 



IL GURU DELL’OREGON – Tornato negli States, il maggiore Bowerman già sul finire degli anni Quaranta è tecnico delle squadre di atletica della University of Oregon. Per ventisei anni le guiderà ai vertici dello sport statunitense, portando quattro volte l’ateneo al titolo nazionale NCAA, forgiando 44 All Americans e 19 atleti approdati ai Giochi Olimpici. Svezzando campioni come Bill Dellinger, “cuore di quercia”, bronzo nei 5000 metri alle Olimpiadi di Tokio nel ’64, poi suo assistente dal ’72, quando a Bowerman verrà affidata la guida del gruppo di mezzofondisti ai Giochi Olimpici di Monaco. O come Jim Bailey, Otis Davis, Dyrol Burleson, Wade Bell, Kenny Moore. E naturalmente “Pre”, al secolo Steve Prefontaine, la leggenda. Il più grande mezzofondista americano della sua epoca, scomparso a soli 24 anni a causa di un incidente stradale, quando all’apice del suo percorso atletico ed umano deteneva tutti i primati statunitensi del mezzofondo, dai 2000 ai 10000 metri.





DA “PRE” ALLE “WAFFLE” – Stabilitosi ad Eugene, la culla dell’atletica a stelle e strisce, Bowerman dal 1972 si dedica totalmente alla sperimentazione delle scarpe da corsa della piccola azienda che ha creato insieme a Phil Knight, suo allievo. Inventa scarpe sperimentali e le chiama “waffle”, perché lavora alle suole con una gomma speciale che plasma sulla macchinetta per i dolci “presa in prestito” dalla dispensa della moglie. Quelle scarpe vengono portate in giro con una macchina, a margine delle riunioni su pista in Oregon, e proposte agli atleti. La piccola azienda si chiama dapprima Blue Ribbon Sports, ma presto i suoi fondatori cercheranno un nome più propizio ed evocativo, scegliendo quello della dea greca della vittoria, Nike. Non occorre ricordare ciò che quell’azienda rappresenta oggi. Ha vestito fior di campioni, di tutti gli sport. Ma uno soltanto ha l’onore di avere una statua che lo ricorda davanti all’entrata del quartier generale di Beaverton, in Oregon. Steve Prefontaine, naturalmente. Il primo a indossare quel prodotto, e il primo a diffonderlo al di fuori dell’Oregon.

 


PER NON DIMENTICARE – Amici storici dell’atletica petroniana hanno studiato a fondo questa storia. Sono ex mezzofondisti come Giancarlo Brunetti, già presidente della Fidal bolognese, Guido Genicco, che in Nike lavora da decenni, ed Ettore Casanova, hanno tenuto i contatti con gli eredi del grande coach e tempo fa hanno addirittura proposto di innalzare un cippo alla memoria di un grande uomo a cui dobbiamo molto, non solo nella nostra vita da sportivi. Sarebbe un’idea. Perché Bill Bowerman, il creatore di Nike, è stato tra i pianificatori dell’assalto alla Riva Ridge, ha lasciato il segno del suo passaggio a Monte Pastore, Cereglio, Cà Bortolani, Tolè, Lizzano in Belvedere. Fa parte di una storia importante, e gli dobbiamo un bel po’ della nostra libertà.


(Nelle Valli Bolognesi - 2022)



martedì 14 marzo 2023

INVENTARE LA VITA

 


C'è chi attraversa la vita e chi la inventa.
Addio, splendido rivoluzionario.