PETER SNELL, DUE GIRI DI GLORIA
E’ stato l’uomo delle “100
miglia a settimana”. Negli anni Sessanta, quando nessun mezzofondista
veloce si sottoponeva ad allenamenti di resistenza così “estremi”, Peter Snell aveva sposato con
convinzione il metodo di Arthur Lydiard, maestro che come spesso succede non fu
da subito profeta nella sua patria, la Nuova Zelanda, e anche dopo aver portato
tre suoi atleti sul podio olimpico di Roma, nel 1960, continuò a lungo ad
essere considerato un outsider. In parole semplici, Lydiard fu l’allenatore che
introdusse la periodizzazione nell’allenamento di mezzofondisti e fondisti, e
di fatto la fase di “marathon
conditioning” che per lui era alla base di qualunque preparazione
specifica, anche quella di ottocentisti e millecinquecentisti. Un
rivoluzionario, che nel 1960 predicava, per dire, la necessità di praticare
attività motoria per i malati di cuore, e qualche anno più tardi fu pioniere
del jogging applicato alle masse.
Peter Snell veniva da Opunake,
borgo di nemmeno 1500 abitanti sulla costa sud-occidentale di Taranaki,
nell'Isola del Nord della Nuova Zelanda. Da ragazzo era uno sportivo a tutto
tondo. Giocava a rugby, a cricket, a golf, correva in pista. Era stato una
promessa nel tennis, arrivando a disputare, da junior, i campionati
neozelandesi. Fu proprio Lydiard a riconoscerne il talento nella corsa, quando
il ragazzo aveva già 19 anni. Era il 1957, Peter correva forte ma era goffo,
dispersivo, stilisticamente imperfetto. Ma aveva una dote che si adattava
perfettamente ai metodi di allenamento del guru di Auckland: la determinazione
che gli faceva sopportare qualunque carico di lavoro.
A diciannove anni, era già pronto per
correre per la prima volta il circuito di Waiatarua, un trail di 22 miglia
(35,5 chilometri) che era un banco di prova per i runners locali, e per un
atleta che in allenamento bruciava già un centinaio di miglia a settimana.
Chiudere quell’impegno intorno alle due ore e mezza, e dedicarsi alla stagione
del cross durante l’inverno del 1958 fu il primo passo verso le ribalte
internazionali. Quando alla resistenza il programma di Lydiard fece seguire i
lavori specifici su pista, la progressione risultò fulminea. Tra il ’58 e il
’59, Peter portò i personali a 5’15”8 nei 2000, a 1’51”6 nelle 880 yards, a
4’12”4 nel miglio. Vinse i primi titoli statali, e all’inizio della stagione
successiva fu quarto ai nazionali di cross, dove appena un anno prima si era
classificato 55mo.
All’inizio della stagione che portava alle
Olimpiadi di Roma, era già in grado di correre il consueto “test” del circuito
di Waiatarua in 2.12’45”. Quando arrivò la convocazione per i Giochi Olimpici,
non restava che tradurre in ritmi veloci tutta quella base di resistenza.
Certo, per conquistare il Grande Sogno serviva altro. A Roma, Peter avrebbe
dovuto superare i propri limiti. Andare di gran lunga oltre sé stesso.
LA
GRANDE IMPRESA – Alle Olimpiadi, Snell si presentava con un
personale di 1’49”2 sulle 880 yards. Non aveva ancora compiuto ventidue anni, e
non aveva mai corso fuori dai confini nazionali. Un perfetto sconosciuto, un outsider
vero. Sotto l’ala protettrice di Murray Halberg, altro allievo di Lydiard che
avrebbe in quei giorni conquistato l’oro nei 5000 metri, prese coraggio e
sicurezza. Il programma era tosto: batterie eliminatorie e quarti di finale nella
stessa giornata, il 31 agosto, semifinali il giorno successivo e finale dopo
altre ventiquattro ore. Quattro sfide sul doppio giro di pista in tre giorni,
contro tutti i migliori al mondo. Snell iniziò vincendo col personale, 1’48”1,
la prima batteria eliminatoria, Nei quarti finì alle spalle del belga Roger
Moens, primatista mondiale, ma in semifinale lo precedette con un altro primato
personale, 1’47”2, mentre nell’altro turno brillava un’altra nuova stella dei
Giochi, il giamaicano George Kerr (1’47”1, record olimpico).
In finale, ognuno si portò la fatica di tre gare in poco
più di quarantotto ore. Moens, il più esperto, tentò di mettere d’accordo tutti
con una prova di forza, attaccando all’uscita dell’ultima curva. “Avevo un muro di atleti davanti, scelsi la
via più breve restando all’interno e poco alla volta iniziai a pensare a una
medaglia, vedendo gli altri che si piantavano in rettilineo. Non pensai più a
niente, guardai dritto davanti a me. Dopo il traguardo, mi si avvicinò Moens.
Chi ha vinto, gli chiesi? Tu, fu la risposta”. Così Peter Snell, ventunenne
neozelandese, era campione olimpico. Correndo in 1’46”3, nuovo record dei
Giochi. In tre giorni di gare, aveva polverizzato il proprio limite, e
all’improvviso si trovò puntati addosso tutti i riflettori. La grande atletica
aveva un nuovo fuoriclasse di cui occuparsi, la Nuova Zelanda un campione da
ammirare ed applaudire.
DOPPIETTA
A TOKIO – Per quattro anni, Snell fu il dominatore assoluto
sulle distanze di 800 e 1500 metri. Nel 1962 stabilì il primato mondiale nel
doppio giro di pista (1’44”3), quello delle 880 yards (1’45”1). Nello stesso
anno abbattè quello del miglio in 3’54”4, limandolo due anni più tardi e
portandolo a 3’54”1. Collezionò due ori ai Giochi del Commonwealth, sempre
fedele al metodo di allenament di Lydiard, sempre sottoponendosi a lunghe e
durissime preparazioni invernali e alla regola delle “100 miglia a settimana”, prima di trasformare tutta quella benzina
in brillantezza da spendere in pista. Quando accettò un lavoro fisso da
geometra, faceva andata e ritorno da casa al posto di lavoro per aggiungere
chilometri alla razione quotidiana, che spesso completava nel buio della sera.
Alle Olimpiadi di Tokio, ovviamente, non era più uno sconosciuto. Era un top
runner, e l’appuntamento lo stava preparando da un anno esatto. Le ultime sei
settimane in altura lo avevano caricato psicologicamente, e soltanto
un’influenza alla vigilia dei Giochi ne aveva appena scalfito le certezze,
perché anche John Davies, suo compagno di squadra, sembrava più in forma di
lui. Ma a una settimana dall’appuntamento, in allenamento, stampò un 1’47”1
negli 800 che lo rassicurò.
E fu, in effetti, una marcia trionfale. Nella semifinale degli 800 fecero scintille il
solito Kerr e il keniano Wilson Kiprugut, astro nascente della specialità,
entrambi abbassando a 1’46”1 il limite olimpico. Ma in finale Snell li sistemò
tutti, uscendo all’inizio dell’ultima curva e seminando gli avversari nel
rettilineo finale e chiudendo in 1’45”1, davanti al canadese Crothers e a
Kiprugut. Nella gara dei 1500, il dominio fu ancora più incontrastato:
all’imbocco del rettilineo, Snell aveva già la medaglia d’oro in tasca, e sul
traguardo rifilò un secondo e mezzo al cecoslovacco Odlozil, mentre Davies
andava a conquistare un altro bronzo per la causa del mezzofondo neozelandese.
Per quattro anni, Peter Snell aveva affrontato carichi di
lavoro impensabili per ogni altro specialista di 800 e 1500 al mondo. Aveva
raccolto i frutti, dimostrandosi il migliore per un lungo periodo di gloria e
onori. Nel 1965, ad appena ventisette anni, si ritirò dalla scena
internazionale. Nel 1970 si trasferì negli Stati Uniti, per approfondire i suoi
studi e conseguire il Bachelor of Science in Human Performance all’Università
di California, e quindi laurearsi in Exercise Physiology alla Washington State University, diventando
quindi direttore dello “Human Performance Centre” all’Università del
Texas . Non ha mai smesso di correre per la propria salute, diventando
anche negli anni Novanta un quotato veterano nell’orienteering. Si è cimentato
in maratona, terminando in 2:41.
I suoi record (allora mondiali) su 800 metri (1’44”3, nel
1962) e 1000 metri (2’16”6, nel 1964) sono tuttora primati nazionali
neozelandesi. La sua bacheca è piena di riconoscimenti: Member of the Order of
the British Empire dal 1962, Officer of the Order of the British Empire dal
1965, infine Knight Companion of the New Zealand Order of Merit. Dal 2007, nel
Cooks Garden della piccola città di Opunake c’è una statua di bronzo che
raffigura il campione che per bruciare due giri di pista più forte di tutti
arrivò a correre fino a 100 miglia a settimana.
Runner's World, agosto 2018
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