martedì 10 dicembre 2019

PETER SNELL, DUE GIRI DI GLORIA



E’ stato l’uomo delle “100 miglia a settimana”. Negli anni Sessanta, quando nessun mezzofondista veloce si sottoponeva ad allenamenti di resistenza così “estremi”, Peter Snell aveva sposato con convinzione il metodo di Arthur Lydiard, maestro che come spesso succede non fu da subito profeta nella sua patria, la Nuova Zelanda, e anche dopo aver portato tre suoi atleti sul podio olimpico di Roma, nel 1960, continuò a lungo ad essere considerato un outsider. In parole semplici, Lydiard fu l’allenatore che introdusse la periodizzazione nell’allenamento di mezzofondisti e fondisti, e di fatto la fase di “marathon conditioning” che per lui era alla base di qualunque preparazione specifica, anche quella di ottocentisti e millecinquecentisti. Un rivoluzionario, che nel 1960 predicava, per dire, la necessità di praticare attività motoria per i malati di cuore, e qualche anno più tardi fu pioniere del jogging applicato alle masse.
Peter Snell veniva da Opunake, borgo di nemmeno 1500 abitanti sulla costa sud-occidentale di Taranaki, nell'Isola del Nord della Nuova Zelanda. Da ragazzo era uno sportivo a tutto tondo. Giocava a rugby, a cricket, a golf, correva in pista. Era stato una promessa nel tennis, arrivando a disputare, da junior, i campionati neozelandesi. Fu proprio Lydiard a riconoscerne il talento nella corsa, quando il ragazzo aveva già 19 anni. Era il 1957, Peter correva forte ma era goffo, dispersivo, stilisticamente imperfetto. Ma aveva una dote che si adattava perfettamente ai metodi di allenamento del guru di Auckland: la determinazione che gli faceva sopportare qualunque carico di lavoro.
A diciannove anni, era già pronto per correre per la prima volta il circuito di Waiatarua, un trail di 22 miglia (35,5 chilometri) che era un banco di prova per i runners locali, e per un atleta che in allenamento bruciava già un centinaio di miglia a settimana. Chiudere quell’impegno intorno alle due ore e mezza, e dedicarsi alla stagione del cross durante l’inverno del 1958 fu il primo passo verso le ribalte internazionali. Quando alla resistenza il programma di Lydiard fece seguire i lavori specifici su pista, la progressione risultò fulminea. Tra il ’58 e il ’59, Peter portò i personali a 5’15”8 nei 2000, a 1’51”6 nelle 880 yards, a 4’12”4 nel miglio. Vinse i primi titoli statali, e all’inizio della stagione successiva fu quarto ai nazionali di cross, dove appena un anno prima si era classificato 55mo.
All’inizio della stagione che portava alle Olimpiadi di Roma, era già in grado di correre il consueto “test” del circuito di Waiatarua in 2.12’45”. Quando arrivò la convocazione per i Giochi Olimpici, non restava che tradurre in ritmi veloci tutta quella base di resistenza. Certo, per conquistare il Grande Sogno serviva altro. A Roma, Peter avrebbe dovuto superare i propri limiti. Andare di gran lunga oltre sé stesso.
LA GRANDE IMPRESA – Alle Olimpiadi, Snell si presentava con un personale di 1’49”2 sulle 880 yards. Non aveva ancora compiuto ventidue anni, e non aveva mai corso fuori dai confini nazionali. Un perfetto sconosciuto, un outsider vero. Sotto l’ala protettrice di Murray Halberg, altro allievo di Lydiard che avrebbe in quei giorni conquistato l’oro nei 5000 metri, prese coraggio e sicurezza. Il programma era tosto: batterie eliminatorie e quarti di finale nella stessa giornata, il 31 agosto, semifinali il giorno successivo e finale dopo altre ventiquattro ore. Quattro sfide sul doppio giro di pista in tre giorni, contro tutti i migliori al mondo. Snell iniziò vincendo col personale, 1’48”1, la prima batteria eliminatoria, Nei quarti finì alle spalle del belga Roger Moens, primatista mondiale, ma in semifinale lo precedette con un altro primato personale, 1’47”2, mentre nell’altro turno brillava un’altra nuova stella dei Giochi, il giamaicano George Kerr (1’47”1, record olimpico).
In finale, ognuno si portò la fatica di tre gare in poco più di quarantotto ore. Moens, il più esperto, tentò di mettere d’accordo tutti con una prova di forza, attaccando all’uscita dell’ultima curva. “Avevo un muro di atleti davanti, scelsi la via più breve restando all’interno e poco alla volta iniziai a pensare a una medaglia, vedendo gli altri che si piantavano in rettilineo. Non pensai più a niente, guardai dritto davanti a me. Dopo il traguardo, mi si avvicinò Moens. Chi ha vinto, gli chiesi? Tu, fu la risposta”. Così Peter Snell, ventunenne neozelandese, era campione olimpico. Correndo in 1’46”3, nuovo record dei Giochi. In tre giorni di gare, aveva polverizzato il proprio limite, e all’improvviso si trovò puntati addosso tutti i riflettori. La grande atletica aveva un nuovo fuoriclasse di cui occuparsi, la Nuova Zelanda un campione da ammirare ed applaudire.
DOPPIETTA A TOKIO – Per quattro anni, Snell fu il dominatore assoluto sulle distanze di 800 e 1500 metri. Nel 1962 stabilì il primato mondiale nel doppio giro di pista (1’44”3), quello delle 880 yards (1’45”1). Nello stesso anno abbattè quello del miglio in 3’54”4, limandolo due anni più tardi e portandolo a 3’54”1. Collezionò due ori ai Giochi del Commonwealth, sempre fedele al metodo di allenament di Lydiard, sempre sottoponendosi a lunghe e durissime preparazioni invernali e alla regola delle “100 miglia a settimana”, prima di trasformare tutta quella benzina in brillantezza da spendere in pista. Quando accettò un lavoro fisso da geometra, faceva andata e ritorno da casa al posto di lavoro per aggiungere chilometri alla razione quotidiana, che spesso completava nel buio della sera.
Alle Olimpiadi di Tokio, ovviamente, non era più uno sconosciuto. Era un top runner, e l’appuntamento lo stava preparando da un anno esatto. Le ultime sei settimane in altura lo avevano caricato psicologicamente, e soltanto un’influenza alla vigilia dei Giochi ne aveva appena scalfito le certezze, perché anche John Davies, suo compagno di squadra, sembrava più in forma di lui. Ma a una settimana dall’appuntamento, in allenamento, stampò un 1’47”1 negli 800 che lo rassicurò.
E fu, in effetti, una marcia trionfale.  Nella semifinale degli 800 fecero scintille il solito Kerr e il keniano Wilson Kiprugut, astro nascente della specialità, entrambi abbassando a 1’46”1 il limite olimpico. Ma in finale Snell li sistemò tutti, uscendo all’inizio dell’ultima curva e seminando gli avversari nel rettilineo finale e chiudendo in 1’45”1, davanti al canadese Crothers e a Kiprugut. Nella gara dei 1500, il dominio fu ancora più incontrastato: all’imbocco del rettilineo, Snell aveva già la medaglia d’oro in tasca, e sul traguardo rifilò un secondo e mezzo al cecoslovacco Odlozil, mentre Davies andava a conquistare un altro bronzo per la causa del mezzofondo neozelandese.

Per quattro anni, Peter Snell aveva affrontato carichi di lavoro impensabili per ogni altro specialista di 800 e 1500 al mondo. Aveva raccolto i frutti, dimostrandosi il migliore per un lungo periodo di gloria e onori. Nel 1965, ad appena ventisette anni, si ritirò dalla scena internazionale. Nel 1970 si trasferì negli Stati Uniti, per approfondire i suoi studi e conseguire il Bachelor of Science in Human Performance all’Università di California, e quindi laurearsi in Exercise Physiology  alla Washington State University, diventando quindi direttore dello Human Performance Centre” all’Università del Texas . Non ha mai smesso di correre per la propria salute, diventando anche negli anni Novanta un quotato veterano nell’orienteering. Si è cimentato in maratona, terminando in 2:41.
I suoi record (allora mondiali) su 800 metri (1’44”3, nel 1962) e 1000 metri (2’16”6, nel 1964) sono tuttora primati nazionali neozelandesi. La sua bacheca è piena di riconoscimenti: Member of the Order of the British Empire dal 1962, Officer of the Order of the British Empire dal 1965, infine Knight Companion of the New Zealand Order of Merit. Dal 2007, nel Cooks Garden della piccola città di Opunake c’è una statua di bronzo che raffigura il campione che per bruciare due giri di pista più forte di tutti arrivò a correre fino a 100 miglia a settimana.

Runner's World, agosto 2018


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