mercoledì 28 aprile 2010

Una piazza per Kammerlander


CAMPO TURES - Quando ha raggiunto il traguardo dei suoi primi cinquant'anni, a Campo Tures, il paese che sta di guardia alla splendida Valle Aurina, gli hanno dedicato una piazza. “E il bello è che sono ancora qui ad attraversarla”, sorride. Come dire: non capita a tutti di ricevere un simile onore in vita. Ma Hans Kammerlander non è una persona qualunque. E' uno dei grandi dell'alpinismo. Ha collezionato tredici dei quattordici Ottomila della terra. E poi, questa è casa sua. Il posto in cui torna sempre, dopo ogni viaggio. Per quanto ci si muova tranquillamente, con infinita naturalezza, qui lui è semplicemente una leggenda.
“Sono nato e vivo ad Acereto. Meno di sette chilometri da qui. Papà aveva un vecchio maso e mi ha insegnato il valore della terra. Su queste cime è nata la passione che nel tempo mi ha portato su vette più lontane. Anche se ho girato il mondo, uno dei ricordi più belli della mia vita in montagna è legato al Moosstock, la cima sopra casa mia. E' alta 3059 metri e l'avrò salita cinquecento volte, ma non dimentico mai la prima. Avevo appena otto anni, quella per me era “la” montagna. Marinai la scuola per andare lassù, e non dissi a nessuno di quella “conquista”. Non volevo che i miei genitori si preoccupassero”.
In un ufficio che è anche un piccolo museo delle sue imprese, questo gigante dell'alta quota ricorda senza enfasi conquiste dal valore inestimabile, e prova a dare un'idea di cosa significhi restare ore, giorni oltre il limite degli ottomila metri senza far ricorso, mai una volta, all'uso dell'ossigeno. Stile alpino, si chiama: niente bombole, pochissimi portatori.
“In certe situazioni conta l'esperienza, la testa. Guai se uno si mette a fare i conti sul ritmo degli altri. Quando sono solo in montagna, e magari in un'ora ho fatto solo cinquanta metri, non mi preoccupo di quanto viaggiano forte quelli che ho intorno. Penso: fa niente, ho ancore tante ore per fare la cima, recupererò. So quello che posso chiedere al mio fisico, le ore di allenamento spese durante la preparazione sono le mie certezze”.
La fatica è una compagna fedele. Non la cerca, Hans. Sa che prima o poi arriverà, e bisogna farne conto. Il titolo di uno dei suoi libri, “Malato di montagna”, è la chiave di lettura. La sua filosofia di vita.
“Nel '99, dopo aver rischiato l'amputazione delle dita dei piedi per un congelamento, ho passato una primavera a casa, senza poter progettare avventure. Stare a guardare mi faceva soffrire. Sì, sono un “malato” consapevole: devi esserlo per affrontare gli ultimi trecento metri verso la cima dell'Everest senza l'aiuto dell'ossigeno. Quell'ultimo tratto non è affatto piacevole, mentre lo percorri forzi te stesso. Ma il bello, la magìa, arriva dopo. Quando guardo la foto di un Ottomila e so che sono salito lassù. E' il ricordo di ciò che ho fatto a rendermi felice”.
Ma Kammerlander rivolge lo sguardo altrove. Da anni ha rinunciato a completare la collezione delle grandi cime. Sul Manaslu, che gli ha dato dolore e tragedia, non tornerà più.
“Nel 2007 ho salito in prima assoluta lo Jasemba, un Settemila in Nepal, insieme a Karl Unterkircher, che se ne è andato tragicamente un anno dopo sul Nanga Parbat. L'entusiasmo di Karl, lassù, mi accompagnerà sempre. Il futuro? Ho 53 anni, mia figlia Tzara che ne ha due mi ha cambiato la vita. Non salirò più a certe quote, anche per me inizia la curva discendente dell'esistenza. E' naturale, l'accetto. Però i miei progetti sono sempre in montagna. Per esempio, ora che in tanti si buttano sulle Seven Summits, le cime più alte dei sette continenti, io provo a raggiungere le Second Seven. Seconde, ma spesso più difficili. E' il mio nuovo obiettivo”.
Dopo gli Ottomila, dopo i record di salita in velocità e le discese impossibili con gli sci da Everest e K2, Hans Kammerlander non ha perso la voglia di guardare lontano. Verso l'alto.

rivista "Ambiente", numero 2 - 2009

1 commento:

  1. Adoro Hans.
    E' un grandissimo alpinista ed un grande uomo.
    Lo stimo infinitamente.

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