giovedì 25 novembre 2010

Il maratoneta con sei bypass


di Marco Tarozzi

“Sono Lorenzo, vivo in Emilia Romagna e corro con sei bypass”. Il messaggio che Lorenzo Lo Preiato ha affidato alla sua t-shirt, mentre correva sulle strade di New York la maratona più famosa del mondo, era forte. Destinato a colpire. E a riaccendere speranze in chiunque ha pensato, fino a quel giorno, di doverle mettere da parte.
Domenica scorsa, tra i cinquantamila runners impegnati sulle ventisei miglia che hanno rivoluzionato il mondo della corsa su strada e della maratona, c’era anche questo quarantanovenne consulente finanziario bolognese che soltanto sei anni fa si trovò, da un giorno all’altro, di fronte a uno di quei crocevia che sparigliano le carte della vita.
«Ho sempre amato lo sport, anche se a livello amatoriale. Giocavo a tennis e mi sottoposi alla classica visita medico-sportiva per l’idoneità agonistica. Mi dissero: ci sarebbe qualche controllino ulteriore da fare. Li feci e risultò tutto negativo, ma ormai mi avevano messo la pulce nell’orecchio. Decisi di andare a fondo».
Lo Preiato contattò un enodinamista e si sottopose a una coronografia. «Me l’avevano sconsigliata tutti, perché è un esame piuttosto invasivo e io avevo soltanto quarantatré anni. Era il primo giugno del 2004, non la dimenticherò più quella data. Finita la visita, chiesi al dottore quando avrei ripreso col tennis. Altro che tennis, rispose lui, tu vai subito da un cardiochirurgo».
Una botta durissima. Soprattutto se non te l’aspetti. «Io non stavo male, ero assolutamente asintomatico. Quelle parole mi tagliarono le gambe. Poi, ovviamente, mi sono mosso. E ho avuto fortuna. Sulla mia strada ho trovato il professor Giorgio Noera. Non solo un grande specialista, ma anche una persona meravigliosa. Mi visitò a metà giugno e una settimana dopo mi aveva già operato».
Sei bypass, appunto. Applicati con una tecnica di rivascolarizzazione attraverso arterie mammarie al Villa Maria Cecilia Hospital di Cotignola. E poi la rieducazione, velocissima. Senza mai mettere da parte l’idea di poter praticare attività sportiva.
«Il professore è stato chiaro da subito: un’attività motoria controllata, senza mai superare una frequenza massima di 130 pulsazioni, sarebbe stata una medicina in più. Non più calcio, basket, tennis, le discipline che amavo, ma attività aerobica. Nuoto, ciclismo o corsa. Scelsi di correre, perché non volevo inchiodarmi a pensare solo al passato. È nata come una necessità ed è diventata una passione».
Non totalizzante, ma abbastanza intensa da costruirci sopra un’avventura nuova di zecca.
«Lo scorso febbraio ho visto crescere da vicino il progetto “Dal divano alla maratona di New York”, nato per smuovere persone sedentarie. Lo ha pensato Nicola D’Adamo, il mio educatore sportivo. Ho pensato che avrei potuto provarci anch’io. E quando ne ho parlato col professor Noera, lui mi ha detto: perfetto, allora la facciamo insieme, questa maratona, tu dall’altra parte dell’oceano e io qui, a Cotignola, a monitorarti metro dopo metro».
Così è stato. Lorenzo ha corso con una dozzina di sensori applicati sul torace, e un cellulare leggerissimo che trasmetteva, via sms, i dati dell’impresa che il suo cuore stava compiendo. Avesse notato anomalie, il professor Noera avrebbe potuto fermarlo all’istante. Ha aperto una strada, il maratoneta coi sei bypass.
«Confesso che ancora non me ne sto rendendo conto, è successo tutto così in fretta dal momento in cui ho deciso di mettermi in gioco, nove mesi fa. Spero che questo esperimento, chiamiamolo così, possa essere utile in chiave futura. E posso dire che mi impegnerò per questo: perché la gente possa affrontare problemi come quello che ho avuto io in modo propositivo, sapendo che c’è una via d’uscita. Se posso essere un esempio in questo senso, non mi tiro indietro. L’altro ieri ho sentito una collega a cui hanno applicato di recente tre bypass, e le ho detto di non preoccuparsi, che tra cinque anni correremo insieme la maratona. L’ho sentita commuoversi».Intanto, Lorenzo ci ha preso gusto. Sul traguardo di Central Park ha subito rilanciato, come ogni runner che si tuffa nel magico mondo di maratona.
«Non mi vergogno a dire che ho pianto, sulla finish line. E non solo. Si può dire che mi veniva da piangere per tutti quei quarantadue chilometri, quando pensavo a dov’ero sei anni fa e dove sono arrivato adesso. In meno di sei ore ho rivisto il film della mia vita, e non mi sembrava vero di essere lì. Ora guardo avanti. Corro sei volte a settimana, cercando di non fare sforzi molto intensi. Per intenderci: piuttosto che due uscite da trenta chilometri, ne faccio sei da dieci. Ma intanto a New York avevo nelle gambe 2240 chilometri, non male. E se il ginocchio non mi avesse fatto soffrire, avrei finito molto prima. Ora vorrei fare la maratona di Roma, in futuro penso alle big five: oltre a New York ci sono Boston, Londra, Berlino e Chicago. Sì, è vero: ormai ragiono da maratoneta...»

L'Informazione di Bologna

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