domenica 23 maggio 2010

Alex Zanardi, un sogno a cinque cerchi



Alex Zanardi, è l’anno della consacrazione sulle strade della maratona. Primo a Milano e Roma, terzo a Padova. L’handbike per lei non ha più segreti.
«Se penso a com’era iniziata, nel 2007 a New York, devo dire che in effetti il salto di qualità è stato notevole. E i progressi hanno poco a che vedere con l’allenamento».
Non sarà entrato anche lei nel club di quelli che dicono “e pensare che non mi alleno mai..”
«No, no, anzi. Mi sto impegnando parecchio. E il bello è che la fatica non mi pesa. Quando vedi i risultati ti gasi e dare il massimo non è quasi mai un sacrificio. Per competere con certi atleti bisogna lavorare duro».
Dunque, qual è il segreto dei suoi progressi?
«Francamente, da quando ho cambiato la posizione di spinta tutto è migliorato. E molto velocemente. Però non è ancora abbastanza».
Non si accontenta mai.
«Il fatto è che fin qui ho gareggiato soprattutto in Italia. Contro fior di talenti, ci mancherebbe: ma nessuno di loro fa parte della mia categoria. Loro sono più aerodinamici, io ho più forza allo sprint. Un anno fa non riuscivo a leggere le loro targhe, ma adesso che viaggio alla pari mi sento un po’ come il bimbo che ruba la marmellata. Perchè basta che faccia una gara tutta in scia per uscire in volata e avere notevoli possibilità di vittoria».
Beh, mica le dispiacerà...
«Vincere fa sempre piacere, soprattutto pensando che prima a quelle posizioni nemmeno mi avvicinavo. Ma mi serviva la verifica fuori dai confini. L’ho avuta a Schenkon, in Svizzera, una settimana fa. Lì ho gareggiato con quelli della mia categoria, appunto. Non c’era il campione del mondo, l’americano Sanchez, ma di stelle ce n’erano, e in più si correva per ventuno chilometri abbondanti contro il cronometro. Contavo di fare una bella figura. Ho addirittura vinto».
E chi la ferma più, adesso?
«Se un anno fa mi avessero detto che a Padova avrei viaggiato alla media dei quaranta all’ora per quarantadue chilometri, mi sarei messo a ridere. Invece è andata così, in quattro ci siamo buttati sul traguardo, con una volatona, abbassando quella che fin lì era la miglior prestazione mondiale sulla distanza. E a trecento metri dall’arrivo ero addirittura in testa...»
Come sempre, quando lei ci si mette d’impegno trasmette entusiasmo.
«Sono contento, è vero. E non solo per i risultati. L’handbike è una disciplina affascinante, tutta da scoprire. Non c’è nulla di scritto. Ogni atleta ha una disabilità diversa, che include perdite oggettive ma anche situazioni che possono trasformarsi in punti di forza. Per dire: io non ho le gambe, tecnicamente un normodotato che si mette a fare una gara a forza di braccia con me perde sempre. Ci sono sviluppi aerodinamici che a me possono dare un risultato, a un altro l’opposto. È su questo piano che ho costruito la mia progressione».
Mettendo le mani sul mezzo, aggiustando, analizzando. Alla sua maniera, insomma.
«Ci ho messo la mia manualità, la fantasia, l’estro creativo che tanti anni di esperienza nell’automobilismo mi hanno dato. È così che ho bruciato le tappe, e ora mi trovo alla pari con ragazzi che si dedicano a questa disciplina da sette stagioni».
Starà trafficando alla sua nuova bici anche adesso, immaginiamo.
«Indovinato. Stavo proprio riflettendo su una modifica. Alzando un po’ il sedile, ho trovato una posizione che non vedo l’ora di testare sulla strada. Ho scoperto che abbassando il centro di rotazione dei pedali e inclinando un po’ di più il busto, ho nuovi margini di miglioramento. Se funziona, rifaccio la bici».
Non sta proprio mai con le mani in mano.
«Sono uno che si arrangia, lima, taglia, lavora. Ho ancora molto da scoprire e per fortuna sono curioso. Poi, in casa ho una miniofficina, e non mi fermo mai davanti agli ostacoli».
Si ricorda il sogno di tre anni fa? Parlava di Paralimpiadi come di qualcosa di inimmaginabile. Invece ora Londra è davvero vicina.
«Non è più un sogno, ma un obiettivo. Devo migliorare ancora un po’, ma credo di poterci arrivare. E senza rubare il posto a nessuno, cosa che non mi sarebbe piaciuta se nel 2008 mi avessero dato una wild-card. Ci posso arrivare per merito mio, perché ho ancora qualcosa da raschiare in fondo al barile».
Pensi come sarebbe contento Franco Ballerini, che l’aveva sospinta su questa strada.
«Faccio fatica a parlare di Franco. Non voglio vantarmi di un’amicizia che in fondo era recente. Ma tra noi c’era sintonia, fatta di passione vera. Mi chiamava, anche solo per dirmi “ciao, come va”, e io ricambiavo. Mi ha sempre seguito in questa avventura. Diceva che sarebbe venuto con me a Londra, nel 2012. Voglio pensare che, se ci arriverò, lui sarà lì con me».
Non ha proprio più tempo per le quattro ruote, insomma...
«Sono fermo, ma le possibilità di continuare le ho avute. Però si trattava di trovare compromessi. Io ho avuto la fortuna di guidare macchine bellissime, fino a un anno fa. Perché dovrei accettare compromessi, allora? Ho tante cose da fare, roba che non mi bastano ventiquattro ore al giorno. Questo stop si è rivelato un’occasione per dedicarmi a qualcos’altro. Poi, se si ripresentasse un’opportunità bella, non mi negherei. I motori restano la mia passione più grande».
Ha scoperto il mondo della maratona. Sensazioni?
«È l’attività sportiva per eccellenza. Non siamo fatti naturalmente per percorrere certe distanze, ogni volta è una sfida. Migliorare un personale è un obiettivo che va oltre la classifica. Puoi arrivare centesimo ed essere felice, perché hai abbassato il limite e porti a casa il risultato. È il senso profondo del fare sport».


ALESSANDRO ZANARDI è nato a Bologna il 23 ottobre 1966. Ha esordito in Formula Uno nel 1991 (debutto alla Jordan, al posto di Schumacher, con un nono posto a Barcellona), dove ha gareggiato per Jordan, Minardi, Lotus e Williams, disputando in totale 41 gran premi, con un sesto posto in Brasile (1993) come miglior risultato. I risultati più brillanti li ha ottenuti in America, in Formula Cart. Debuttante nel ‘96 col team di Chip Ganassi, alla seconda gara è già in pole position e chiude la prima stagione al terzo posto, da “Rookie of the Year”. Nel ‘97 la consacrazione, con la conquista del titolo che resterà suo anche nel ‘98, a coronamento di una storica doppietta. Dopo la parentesi in Williams nel ‘99, torna negli States in Champ Car col team di Mo Nunn nella stagione 2001. Il 15 settembre dello stesso anno, l’incidente al Lausitzring. Ricoverato in condizioni disperate, si salva ma subisce l’amputazione di entrambi gli arti inferiori. Torna sul circuito fatale nel 2003, per “completare” i giri mancanti di quella gara drammatica, e due anni dopo torna al successo nel Mondiale Turismo con la Bmw. Innamoratosi dell’handbike, fa il suo esordio alla New York City Marathon del 2007, cogliendo il 4° posto. Già nel giro azzurro, la prossima settimana sarà a Piacenza con la maglia della Nazionale per le prove di Coppa Europa.

L'Informazione di Bologna, 22 maggio 2010

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